Sheila Heti (Toronto, 1976), autrice di “Maternità”, è ora nelle librerie italiane con “Colore puro”. È una delle scrittrici americane contemporanee più interessanti e sorprendenti. ilLibraio.it l’ha incontrata a Milano: “Mi interessa la critica, leggo le recensioni dei miei lavori, quello che le persone dicono dei miei libri. Non cambia quello che faccio, ma metto qualcosa fuori nel mondo e poi mi chiedo come può venire recepito”. Ha parlato anche di intelligenza artificiale, su cui sta facendo sperimentazioni: “Non ho le stesse preoccupazioni che hanno altri… per me è anche poetica, e assurda” – L’intervista

Sheila Heti è un uccello. Creatura dell’aria, dedicata all’arte e al bello. Nel mondo di Colore puro (il Saggiatore, traduzione di Federica Aceto), funziona così. Ci sono gli artisti, come lei; ci sono quelli che combattono per un mondo più giusto, i pesci; e ci sono quelli strenuamente legati alla famiglia e agli affetti, gli orsi.

Dio, nella prima bozza della Creazione, ha pensato a questa suddivisione, e ora fa un passo indietro e studia la sua opera. A un certo punto vedrà quali sono gli errori che ha fatto, e ci sarà una nuova bozza, migliorata: per adesso, Mira, la protagonista, un altro uccello, deve capire come muoversi in questa versione dell’esistenza, mentre ama Annie, un pesce, ed elabora il dolore per la morte del padre, un orso.

Heti è una delle investigatrici dell’essere più interessanti che abbiamo nella letteratura contemporanea. Nel 2018 il New York Times l’ha inserita in un elenco di 15 autrici che stanno riformando la scrittura, una “New Vanguard”. Insieme a lei: Zadie Smith, Rachel Cusk e Elena Ferrante.

La sua ricerca si muove in due versi opposti, scavando all’interno ma coinvolgendo il mondo fuori, o il caso, in una serie di rimandi che fanno scartare di lato il ragionamento. In La persona ideale, come può essere? (Sellerio, traduzione di Moira Egan e Damiano Abeni) gira intorno alla domanda «Come ci si costruisce un’anima?».

In Maternità, sempre uscito per Sellerio con traduzione di Martina Testa, si interroga sull’eventualità di diventare madre, ed è agli i-Ching che chiede: questo libro farà bene alla mia anima?

Per chi le dice che la sua è autofiction: un giorno ha preso i suoi diari, e ha ordinato le frasi in ordine alfabetico. Quello che ne è uscito, per ora sul New York Times, è sempre il racconto della sua vita, ma ricombinato in un modo tale – casuale perché l’ordine alfabetico è un criterio come un altro – da restituire un’altra vita. Frammentare, riordinare, comporre i pezzi senza il timore di lasciare spazi tra gli incastri: la scrittura per Sheila Heti è scervellarsi sulle cose, ma anche divertendosi molto.

IlLibraio.it l’ha incontrata all’Ostello bello in occasione della presentazione milanese di Colore puro.

Sheila Heti, Colore puro

Ogni suo libro si apre con una sorta di indagine interiore. Quali sono le domande che si è posta cominciando Colore puro?
“Non sono sicura di avere avuto una domanda in mente questa volta. O meglio, volevo ragionare sulla critica d’arte e la storia della critica d’arte. Ho iniziato a fare ricerche sulla scena parigina, sugli scritti di Baudelaire. Per Maternità e La persona ideale, come dovrebbe essere? avevo delle domande che fungevano da motore propulsore, qui invece partivo da un’altra idea, poi dopo sei mesi ho cambiato un po’ direzione”.

E infatti cominciamo subito con l’idea di una prima bozza della Creazione. Qual era la prima bozza del romanzo?
“Ci sono molti aspetti di cui mi sono liberata, ma ne rimane comunque una traccia: il mondo è pieno di critici, e se Dio è l’artista in un certo senso noi siamo tutti critici d’arte, siamo i critici dell’opera di Dio. Ci sono state molte revisioni: a un certo punto c’era un principe e Mira andava a stare da lui; anche Mira aveva un altro nome ed era un personaggio completamente diverso. All’inizio volevo che ci fossero delle preoccupazioni superficiali, come ‘Mi piace quest’uomo, o quest’altro?’, e poi sarebbe successo qualcosa per cui questi problemi non sarebbero più sembrati importanti. Avevo già deciso questo prima che mio padre morisse; quando è successo ho cominciato a scrivere la parte sulla morte”.

Il lutto è entrato nel romanzo, aggiungendo un ulteriore elemento naturale alla narrazione, dopo la suddivisione in uccelli, pesci e orsi. Il lutto è una foglia. Il fatto che stiamo perdendo un certo tipo di contatto con la natura secondo lei può portare alla perdita anche di un vocabolario per il dolore, e per l’amore?
“Non avevo mai pensato prima che queste cose fossero connesse! Credo sia un buono spunto: abbiamo paura della morte, abbiamo paura dell’amore e abbiamo paura persino della vita, quindi evitiamo questo confronto il più possibile. Non abbiamo parole precise per questi sentimenti, ma la natura le ha sempre”.

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Tornando alla divisione delle persone. Gli uccelli hanno la testa verso il cielo, verso l’arte, per i pesci invece l’attenzione è alla comunità. Crede che gli artisti possano in qualche modo rivolgersi alla collettività, o bisogna aspettare una seconda bozza dell’esistenza?
“Penso che ognuno si assegni un elemento diverso. Che i pesci cerchino la giustizia e si interessino della situazione politica, e che gli uccelli si dedichino al lato estetico dell’esistenza ha la stessa importanza. Qui a Milano, ad esempio, vedo che c’è molta attenzione al bello: le persone si vestono bene, mangiano bene, l’architettura è splendida. E poi ci sono gli orsi, che sono orientati verso gli amici e la famiglia. Sono tutti aspetti che hanno la stessa rilevanza, e nel mio universo non se ne fa carico la stessa persona. A volte senti di doverti occupare di ogni cosa al mondo, e invece no. Puoi dedicarti a quello che ami e sai fare, sapendo che ci sono altre persone che tengono al loro ruolo con la stessa cura”.

Nel libro ritorna spesso un conforto che arriva dall’arte, o dal leggere pagine che emozionano. 
“È naturale per gli uccelli amare l’arte come lo è per altri amare il proprio bambino, i genitori, gli amici”.

In Maternità consulta gli i-Ching, per The Paris Review ha interrogato l’intelligenza artificiale. Pensa che affidarsi alle macchine sia una nuova forma di divinazione?
“Sì, è quello che mi ha attratto. È come lanciare una moneta, anche se ti dà qualcosa di più di un sì o un no. Quando stai parlando con qualcosa al di fuori di te, che sia un amico, Dio, una moneta che lanci, un’intelligenza artificiale, provi sempre una specie di eccitazione nello scoprire cosa dirà, come la sua risposta ti cambierà. Amo osservare il modo in cui il mio percorso può incontrare variazioni. Un programma non è né meglio né peggio delle monete: è sempre un input esterno, a cui puoi decidere di reagire come credi. Non ho le stesse preoccupazioni che hanno altri sull’intelligenze artificiali, ma sono contenta ci siano anche persone che ci ragionano sopra, così posso continuare a divertirmi! Per me è anche poetica, e assurda”.

Lei gioca molto con l’invitare il caso nella scrittura: abbiamo già visto gli i-Ching, ma anche il riordinare il suo diario in modo alfabetico. Meglio un pizzico di caos nella creazione?
“Sì, si tratta di non avere il controllo completo sulla situazione; e c’è anche un aspetto di collaborazione, è come se stessi collaborando con l’alfabeto. Sono due concetti vicini, perché nel caos c’è l’elemento distruttivo e l’elemento che invece arriva in tuo aiuto. È molto più divertente rispetto a essere l’unica voce nello spazio della creazione”.

Una cosa buffa, pensando che si tratta di un diario, il testo più personale che ci sia.
“Quando è in ordine alfabetico diventa molto più impersonale. Ho passato gli ultimi sei mesi a editarlo, perché uscirà anche in forma di libro l’anno prossimo, e ora non mi sembra nemmeno più il mio diario. Ci sono queste frasi, oggettive, e ci sto semplicemente giocando. Soprattutto sto tagliando: partivo da 500.000 parole e ora arrivo a 50.000, ma non sto più cercando di raccontare la mia vita. Piuttosto cerco di capire quale frase è più interessante dopo quest’altra frase”.

Abbiamo cominciato con l’idea di un libro sulla critica. Lei come ci si rapporta?
“Mi interessa la critica, leggo le recensioni dei miei lavori, quello che la gente dice dei miei libri. Non cambia quello che faccio, ma metto qualcosa fuori nel mondo e poi mi chiedo come può venire recepito. Mi dà anche informazioni su come leggono le persone. In Italia le domande dei giornalisti sono diverse rispetto a quelle che mi fanno in America, è curioso vedere come ogni cultura reagisce in modo diverso allo stesso oggetto”.

Prossimi progetti?
“I diari escono l’anno prossimo, probabilmente solo in inglese perché non credo siano traducibili. Sarebbe molto interessante vedere come potreste fare una versione italiana, perché si dovrebbe tradurre ogni frase e riordinarla di nuovo. Oltre a questo sto ancora giocando con Alice, il programma di intelligenza artificiale, e sto lavorando a una storia, ma è ancora molto lontana dal diventare qualcosa. Tutti stanno scrivendo di intelligenza artificiale. Aspetto il momento in cui la smania per questo tema trovi una forma diversa, ora mi sembra che ogni articolo ne parli e invece avrei bisogno di silenzio”.

Preferirebbe sapere di essere stata creata in una prima bozza dell’esistenza, o ignorare la sua condizione?
“Immaginare l’esistenza come una prima bozza della creazione era un gioco, ma se fosse veramente così credo che vorrei saperlo. È un’idea rassicurante. Ci angosciamo perché le cose non vanno meglio. E penso sia giusto desiderare che siano migliori, ma anche essere a posto con la consapevolezza che non lo sono. Se so che posso fare di più nella seconda bozza non pretenderò la perfezione da quello che ho. Mi sembra sia più sereno vivere così”.

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