In occasione della pubblicazione in Italia, a 20 anni dall’uscita, del suo primo romanzo “Membrana”, un classico della narrativa speculativa in cinese, abbiamo incontrato Chi Ta-Wei, professore di Letteratura taiwanese a Taipei e autore capace di raccontare un’epopea queer in un’ottica transumanista e fantascientifica. A dispetto dei temi apparentemente distopici di un libro così visionario, nell’intervista abbiamo parlato di genitori asiatici oppressivi, di privacy, e di visioni private dei film di Pasolini…

Finalmente è stato da poco pubblicato anche in Italia il primo romanzo del celebrato Chi Ta-Wei, professore associato di Letteratura taiwanese alla National Chengchi University di Taipei, un’opera il cui titolo così specifico è, a differenza delle aspettative, tutt’altro che metaforico.

La prima Membrana (Add, traduzione di Alessandra Pezza) che incontriamo, infatti, è un confine geopolitico: in un futuro distopico, il genere umano si è trasferito negli abissi oceanici, protetto da una membrana che lo isola non solo dalle acque, ma dalla distruzione e dall’inabitabilità della superficie.

E ci sono, in questo romanzo diventato negli anni ’90 una sorta di manifesto queer, membrane di tutt’altro genere – o sarebbe meglio dire – di tutti i generi.

La protagonista Momo – campionessa taiwanese di cosmesi – applica ai propri clienti una pellicola in grado di registrare e di emulare tutte le sensazioni fisiche che quel corpo prova. Il viaggio di Momo è quindi un viaggio nella vita degli altri, attraverso i loro corpi più o meno voluttuosi, ma è anche un viaggio verso il proprio passato: infatti, nel giorno del suo trentesimo compleanno, la ragazza incontra finalmente sua madre, con cui non ha contatti da 18 anni, e può finalmente comprendere il mistero della propria esistenza.

Abbiamo avuto l’occasione di incontrare Chi Ta-Wei a Milano, e di toglierci un po’ di curiosità non solo su un’opera così unica, che fonde fantascienza, critica sociale, citazioni letterarie e queer studies.

Chi Ta-Wei è un autore ancora poco conosciuto in Italia, ma si è saputo distinguere per un’attenzione assolutamente particolare e uno stile vertiginoso.

Leggere Membrana è come stato come aprire una matrioska: c’è sempre un trauma che ne contiene un altro, giù fino al trauma più profondo. Il suo libro è stato in alcuni casi identificato come un manifesto queer, ma c’è un elemento che sembra dire il contrario. Le transizioni di Momo non sono volontarie, non è lei a scegliere di cambiare. Come si uniscono questi due elementi?
“Sicuramente spiegare cosa abbia rappresentato Membrana, a quasi vent’anni dalla sua uscita, non mi è facile, ma posso dire che cosa penso oggi dopo averlo riletto. Penso che il mio obiettivo, prima ancora di parlare della libertà di scelta, fosse di indicare tutte quelle imposizioni che le persone – queer o meno – subiscono nella loro sfera emozionale, sociale e sessuale. Avevo particolarmente a cuore la vita dei giovani taiwanesi, che all’epoca era estremamente restrittiva”.

Ci spieghi perché.
“Veniva chiesto loro di studiare tutto il giorno, di abbandonare gli hobby e gli sport, e di non fare sesso. Per quanto risulti paradossale, per me sarebbe stato assurdo permettere al personaggio di Momo di scegliere: sono sempre stati i genitori, nei contesti asiatici, a imporre le proprie decisioni sui figli. In effetti, chi si approccia a questo romanzo aspettandosi un manifesto queer potrebbe rimanerne deluso: ci sono molti elementi appartenenti a molti generi, ma non c’è un’agenda politica. Per esempio, non compaiono quasi per nulla uomini gay, che invece sono presenti in molti altri miei scritti”.

L’assenza di uomini gay in effetti è curiosa, ma si potrebbe dire che gli uomini sono assenti in generale. In qualche modo sembra che i generi di Membrana siano tre: le donne, gli androidi e le industrie. E queste ultime appaiono come quelle che si avvicinano di più al tipico ideale di mascolinità.
“È vero, le ‘corporations’ nel romanzo rispecchiano in molti modi la tipica abusività, il paternalismo e la mania di controllo del genere maschile. Sono diventate in un certo senso più potenti delle nazioni stesse, hanno preso interi continenti per sé, controllano il business della guerra e la produzione degli androidi. Ma questa, ovviamente, è solo una parte del modo in cui mi sono trovato a descrivere il genere maschile nelle mie opere”.

Membrana sembra avere, oltre al tema dell’identità sessuale, un tema più sottile: c’è un sacco di “spionaggio”, o forse di voyeurismo, all’interno dell’opera. Molti personaggi, compresa Momo, agiscono per il semplice desiderio di vedere-senza-essere-visti, basti pensare alla M-Skin, la pellicola cremosa che permette alla protagonista di raccogliere il vissuto corporeo delle proprie clienti. A cosa risponde questa necessità?
 “Per quanto possa sembrare strano a un pubblico europeo, la mia necessità, all’epoca, era quella di descrivere una certa attitudine presente in Asia e in particolare a Taiwan, la realtà che conosco meglio. Le strade erano piene di videocamere di sorveglianza, e persino i genitori, come dicevamo prima, agivano in determinati modi nei confronti dei figli. Ad esempio, era molto comune che leggessero il diario segreto dei propri figli, lo sentivano come fosse un loro diritto; addirittura, c’erano genitori che chiedevano ai figli, persino dopo il matrimonio, di non chiudere mai a chiave la porta della propria camera, così da poterli tenere sempre sotto controllo. E poi c’è un altro lato della medaglia…”.

Quale?
“Riferendomi sempre alle società asiatiche, molte persone si sentono più sicure alla sola idea di essere monitorate. Sebbene a Taiwan questa realtà sia molto meno opprimente che in Cina, sono molti i sostenitori di leggi che chiedono di mettere sempre più a disposizione del pubblico i propri dati personali. L’idea di molti è che la privacy – o addirittura l’intimità – siano ambiti che si possono sacrificare in favore della sicurezza”.

In Membrana compare un personaggio immaginario che, però, ha un nome estremamente familiare. Si chiama Pier Paolo Pasolini, ma non vogliamo rubare ai lettori e alle lettrici la possibilità di scoprire cosa gli accade nel romanzo. Ci viene però da chiederle: da dove nasce questa passione, o interesse, per il vero Pasolini?
“Dunque, Pasolini è stato un autore fondamentale per la mia crescita, e adesso che mi trovo a Milano ho passato un sacco di tempo in Stazione Centrale, solo perché lì è stata girata una delle mie scene preferite di Teorema. Insomma, al liceo ero il tipico ragazzino gay solitario, non avevo molti modo di esprimermi o di abbracciare serenamente la mia identità. In particolar modo, sentivo la mancanza di un’eroe culturale, di un autore o un personaggio da eleggere come modello, e Taiwan negli anni ’80 non aveva esempi del genere. Con l’inizio dell’università iniziai a sentir parlare di Pasolini, e solo qualche tempo dopo incappai in una persona che aveva una collezione straordinaria di VHS con i suoi film. E ora che ci penso, le videocassette erano masterizzate da programmi giapponesi – che sono sempre stati affascinati da Pasolini – ma allo stesso tempo avevano censurato pesantemente tutte le scene più crude. Immagina di guardare Porcile tutto pixelato, non si capiva niente, ma era comunque un’esperienza quasi mistica. È cosi che è iniziato il mio amore per Pasolini, e quello erotico è stato solo il primo canale di contatto, perché è stata poi la sua visione, la sua critica intransigente, a catturarmi”.

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