Sonia è una ragazza italiana che vive a Parigi da tre anni. È una dei tanti giovani che frequentano abitualmente l’XI arrondissement e la sera degli attentati si è rifugiata in un hotel, insieme a due amiche, perché non poteva tornare a casa. A due settimane dai tragici attacchi, su ilLibraio.it la testimonianza e il racconto di quella notte e di come Parigi cerca di tornare alla quotidianità: “Vogliamo riflessione, consapevolezza. Sappiamo che venerdì 13 è solo uno dei sintomi di una questione molto più grande di tutti noi che ci affanniamo a scrivere, capire e spiegare…”

Aujourd’hui tu marches dans Paris les femmes sont ensanglantées
C’était et je voudrais ne pas m’en souvenir c’était au déclin de la beauté

G. Apollinaire, Zone

Parigi è la mia città da più di tre anni. Non è solo la città che mi ha permesso di studiare e lavorare, è lo spazio emotivo e sociale che ha dato più forma a ciò che sono.
Oggi più che mai, mi sento parigina e mi sento straniera, al contempo. Oggi più che mai provo un sentimento di spaesamento, una difficoltà a distinguere i piani e i livelli, perché questa volta la tragedia e il dolore mi toccano troppo da vicino. Oggi sono solo una di quei giovani che frequentavano abitualmente l’XI arrondissement, i luoghi della strage, sono una persona ferita, spaventata, addolorata; al contempo sono un’immigrata italiana in Francia, sono una che abita la periferia nord di Parigi, il famoso “93” a maggioranza musulmana, e sono un’appassionata di scienze sociali, che di questi “ghetti” – e forse le virgolette sono solo una forma di pudore – ha fatto il suo oggetto di studio e di analisi. “93 c’est Paris”, canta in un video un mio amico rapper di Aubervilliers.
Oggi più che mai non mi interessano le identità fittizie, e non mi interessa darmi alcun nome, perché “je suis”, “io sono” tante cose e non intendo rinunciare a nessuna di queste.

So che a gennaio non ero Charlie, e che quel momento di commozione e unità di fronte al terrore mi appariva sempre più una strumentalizzazione politica, un’ipocrisia, un’unità troppo miope. Perché Parigi significa complessità e differenza, e quegli slogan ancora una volta non davano voce a una parte della popolazione. La mia impressione era che dietro al discorso dominante sulla libertà di espressione, si celasse una volontà di annullamento delle identità e del conflitto, mi sembrava di riconoscere ancora quell’assimilazionismo, quella centralizzazione specificamente francese che professava un laicismo in realtà dogmatico, un’altra variante religiosa in fondo, piuttosto che una reale libertà.
Oggi mi sento tante cose e nessuna, la mia intimità, la mia quotidianità e quella dei miei amici è stata toccata, trafitta troppo a fondo per riuscire a esprimere un pensiero realmente lucido, o di qualche valore intellettuale. A distanza di qualche giorno, mi rendo conto che, più ancora che l’angoscia e il panico di quel venerdì sera, la mia mente ha trattenuto le sensazioni del “post” attentato; quell’assurdo momento in cui, dopo una notte insonne passata davanti alla televisione di una camera di hotel, la mattina dopo, dai sedili posteriori di un taxi, come in un film ci sentivamo scivolare lungo le strade di Parigi, sospesi in un’atmosfera irreale. La città che conoscevamo non era più la stessa e neanche noi lo eravamo.

Ci dicevamo che sentivamo di essere cambiate per sempre, e quelle strade così familiari adesso sembravano le ossa esposte di un corpo nudo e violato. Così fragile. A ne pas toucher.
Forum des Halles, Métro Saint-Michel, Librairie Gibert Jeune, Boulevard Saint-Germain, una sfilata silente di posti noti, abituali, i numeri che scorrono sul tassametro, “direzione rue de Tolbiac”; transenne, militari, nessun rumore. Un silenzio assordante, continuavo a ripetermi.
E poi un sentimento di incomunicabilità. Gli amici di Parigi, e le due amiche con cui ho condiviso quella nottata in particolare, sono le uniche persone da cui mi sento davvero capita; e così è per loro. Forse è inevitabile. Continuiamo a parlare solo di quella giornata, a riviverla. Le scale a chiocciola del bar in cui eravamo rifugiate, il divano su cui abbiamo passato ore col respiro corto, lo schermo del telefono che non la smetteva di illuminarsi. L’impotenza totale, la vulnerabilità. Il tremore che non si stacca dalla pelle.

Ora, con dolore e grande paura – inutile negarlo – si cerca di tornare alla quotidianità, ma la “normalità” a cui aspiriamo non è oblio e non è rivendicazione identitaria, perché il “nemico interno” che si dice di voler combattere è qualcosa che proprio dall’interno è stato fabbricato e rafforzato.
Vogliamo riflessione, consapevolezza. Sappiamo che venerdì 13 è solo uno dei sintomi di una questione molto più grande di tutti noi che ci affanniamo a scrivere, capire e spiegare.

La sensazione, che non mi abbandona, è di essere nonostante tutto una “privilegiata”, pre e post attentati, per il tipo e la qualità di vita che conduco e per le risorse materiali e simboliche di cui dispongo. Un senso di colpa tutto occidentale. Siamo anche questo.
Oggi non so chi sono, ma credo che si debba sempre restare umani, che si debba soccorrere la debolezza.
Oggi non so chi sono, ma credo, come credevo ieri, che in questo mondo siamo tutti stranieri.

sonia

L’AUTRICE* – Sonia Marzullo ha 28 anni, vive e lavora a Parigi, dove si è trasferita nel 2012. Ha studiato antropologia culturale e si interessa di tematiche sociali legate alla discriminazione e all’esclusione in ambito urbano.

Libri consigliati