“Paese Perduto” di Pierre Jourde – pubblicato in Francia nel 2003 e ora disponibile in Italia grazie al lavoro della neonata Prehistorica Editore – racconta il ritorno a un paese dell’Alvernia, svuotato e abbandonato, lentamente divorato e cancellato dalle sabbie mobili del tempo. È un testo aspro, e narra con dolore e rabbia (ma anche amore) la paralisi e la selvatichezza che ha invaso gli ultimi abitanti rimasti in quello che era il luogo d’origine del padre dell’autore. Leggendolo tornano alla mente una serie di lavori usciti negli ultimi anni che indagano la falsa rappresentazione delle terre abbandonate – L’approfondimento

La paesologia e l’abbandonologia, di cui in letteratura Franco Arminio e Carmen Pellegrino sono gli esponenti più noti, ci hanno abituati a guardare ai paesi in rovina e abbandonati come a luoghi depositari di un’esistenza autentica e incontaminata, come luoghi che portano nelle loro ferite e nelle crepe che vi si allargano, ogni giorno sempre più, sgretolandoli, il segno della perdita di un’innocenza irrecuperabile.

Eppure questi paesi abbandonati non sono solo il ricettacolo di un’arcadia perduta e di un’esistenza dalla fisionomia quasi ancestrale, talvolta prendono la forma tangibile di quella deriva che li ha marchiati: mucchi di stracci impolverati nelle case, mosche, alcolismo, violenza, merda, immobilismo, paralisi, sopore.

Pierre Jourde, Paese perduto

Paese Perduto di Pierre Jourde – pubblicato in Francia nel 2003 e ora disponibile in Italia grazie al lavoro della neonata Prehistorica Editore e della raffinata traduzione di Claudio Galderisi – racconta proprio questo: il ritorno a un paese dell’Alvernia, svuotato e abbandonato, lentamente divorato e cancellato dalle sabbie mobili del tempo. È un testo aspro, che non fa sconti, ma narra con profondo dolore e rabbia (ma anche amore) la paralisi e la selvatichezza che ha invaso gli ultimi abitanti rimasti in quello che era il paese d’origine del padre dell’autore.

Tornato col fratello per un sopralluogo a un rudere appena ereditato, Pierre si trova a trascorrere due giorni a Fauconde (nome fittizio) marcati temporalmente dalla veglia e il funerale della giovane Lucie, morta il giorno prima dell’arrivo dello scrittore. In questo intervallo temporale – due giorni che si dilatano all’infinito – ai corpi mutilati e sudici dei pochi vecchi abitanti vivi rimasti, riuniti per un ultimo saluto alla giovane, si aggiungono le ombre e le memorie dei morti. Prende così vita sulle pagine del romanzo un carosello di figure presenti e assenti che ricorda a tratti un’incisione di Goya.

La brutalità che domina il romanzo, e la claustrofobia fangosa reminiscente l’atmosfera di Satantango che lo permea, non sono totalmente respingenti, ma si nutrono delle numerose contraddizioni che Jourde vive nei confronti di un paese di cui si vorrebbe sentire parte ma che vive da alieno, e dal desiderio di raccontarlo nella maniera più autentica possibile, senza scadere nel folklorismo. Questo desiderio di autenticità è mosso dalla volontà di raccontare vite costantemente tese tra eroismo e banalità, sospese in un tempo ancestrale che pure le corrode, che impastano pane duro quasi fosse l’unico modo di preservarlo, che perdono falangi perché si addormentano con le dita sul filo spinato nelle notti etiliche invernali, che danzano con eleganza misteriosa la polka, che si addormentano sotto montagne sudicie di cenci che invadono le case, come le mosche colonizzano i formaggi che invecchiano su ripiani arrugginiti di frigoriferi abbandonati, e che pure ridono, accolgono, si innamorano e cantano circondate da animali col “culo incioccolattato di merda”. Tra questi volti sfigurati, scavati dal tempo e dal freddo, serpeggiano segreti di pubblico dominio che spingono la gente a chiudersi in un silenzio lacerante, come è il caso del padre defunto, la cui storia il protagonista/Jourde spera di farsi raccontare nei giorni che trascorre al villaggio.

L’autenticità non è solo il motore della narrazione e un modo di raccontare, ma secondo Jourde anche un atto di dovere nei confronti di un paese che è rimasto schiacciato nelle pieghe del tempo e che ha resistito all’invasione della modernità morendo. Solo rifiutando i ricami letterari, ma fronteggiando la materia viva e tellurica “con lo stomaco”, come scrive Jourde stesso nel saggio La littérature sans estomac in cui lamenta la mancanza di nervo della letteratura contemporanea francese, è possibile squarciare il velo opprimente del conformismo e perbenismo dello sguardo moderno e civilizzato sulle realtà contadine abbandonate.

Eppure, benché al fondo di questo desiderio di verità vi siano l’amore e il dolore, scrivere Paese Perduto ha significato per Jourde “perdere” del tutto il paese del padre. Come racconta infatti in La première pierre (2013, Gallimard – ancora inedito in Italia), tornare alla vera Fauconde dopo la pubblicazione di Paese Perduto gli è costato una serie di aggressioni e sassate che hanno messo a rischio l’incolumità sua e della sua famiglia. A nulla è valso spiegare che il rapporto tra realtà e finzione, ispirazione e narrazione, si basa su un equilibrio sottile facilmente discutibile, che il lordume del romanzo è reale ma è solo una parte di quello che si trova nelle case, che una narrazione si compone di inquadrature che sono il frutto di una scelta tra cosa inserire e cosa escludere. Gli abitanti di Fauconde hanno percepito un attacco e all’attacco hanno risposto con disprezzo.

Fauconde è l’Euridice che Jourde/Orfeo cerca di salvare, ma nel malinteso della ricezione del romanzo da parte dei lettori dell’Avernia si è consumato lo sguardo che condanna al distacco definitivo.

Nel leggere Paese Perduto tornano alla mente una serie di lavori usciti negli ultimi anni che indagano la falsa rappresentazione delle terre abbandonate, tra questi ad esempio il saggio La Spagna vuota di Sergio dal Molino (trad. Maria Nicola, Sellerio, 2019) o il romanzo La pioggia gialla di Julio Llamazares del 1988 (trad. Denise Zani, il Saggiatore, 2019), ma anche vecchi lavori documentaristici come Terra senza pane di Buñuel (1933), ambientato a Las Hurdes in Spagna, un paese che proprio come Fauconde, negli anni trenta, era povero ai limiti dell’indicibilità.

Qui, come in Paese Perduto, alle esigenze documentariste di rappresentazione della realtà si intrecciano lo sguardo soggettivo e le necessità narrative che mettono in dubbio l’autenticità del racconto. Paese Perduto e Terra senza pane mescolano un tempo presente con uno arcaico e mitologico e pugnalano il lettore/osservatore mostrando ciò che non si vuole o non si può vedere.

Sono, queste, opere di etno-finzione e denuncia sociale, che nella loro violenza testimoniano una “brutalità innamorata” verso luoghi e persone che per la drammaticità delle loro condizioni spesso vivono al di fuori delle mappe.

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