Un ex portiere di calcio, licenziato improvvisamente dal lavoro in cantiere, inizia a vagare per le strade di Vienna… “Prima del calcio di rigore” di Peter Handke è il romanzo da cui è tratto il primo film di Wim Wenders, “La paura del portiere prima del calcio di rigore” – Su ilLibraio.it un capitolo

Prima del calcio di rigore di Peter Handke è il romanzo, in libreria per Guanda, da cui è tratto La paura del portiere prima del calcio di rigore, primo film di Wim Wenders. Il libro racconta la vicenda dell’ex portiere di calcio Josef Bloch che, licenziato improvvisamente dal lavoro in cantiere, inizia a vagare per le strade di Vienna, va al mercato, al cinema, allo stadio, poi cerca una camera d’albergo per la notte. I suoi sensi sono allerta, tutto lo infastidisce e allo stesso tempo cerca disperatamente un contatto, prova a chiamare dei conoscenti senza trovare nessuno. La sua peregrinazione continua finché incontra una donna disposta a stare con lui. Ma poi la uccide, senza motivo. L’angoscia che lo attanaglia dopo l’omicidio è la stessa che provava quando da portiere si preparava a respingere un calcio di rigore. Tenta allora la fuga verso il confine, sentendosi braccato, spiato e sospettando di tutti, cercando di prevedere le mosse dell’avversario.

Per gentile concessione di Guanda, su ilLibraio.it potete leggere un estratto:

Quando al mattino, destato da un rumore, Bloch guardò dalla finestra dell’appartamento, vide un aereo in atto di atterrare. Il brillare delle luci di posizione del velivolo lo indusse a tirare la tenda. Poiché fino a quel momento non avevano acceso luci, la tenda era rimasta aperta. Bloch si coricò e chiuse gli occhi.

Con gli occhi chiusi fu colto da una strana incapacità di immaginare alcunché. Sebbene cercasse di figurarsi gli oggetti della stanza attribuendo loro tutti i nomi possibili, non riusciva a immaginare niente; non avrebbe saputo ricostruire mentalmente neanche l’aereo che aveva appena visto atterrare e l’ululato dei cui freni sulla pista riconosceva probabilmente da prima. Aprì gli occhi e guardò per qualche tempo in un angolo, dove si trovava il cucinino: si impresse nella memoria la teiera e i fiori avvizziti che penzolavano dall’acquaio. Non appena aveva chiuso gli occhi, fiori e teiera gli erano divenuti inimmaginabili. Si aiutò costruendo per questi oggetti, invece di parole, frasi, nella speranza che una storia fatta di tali frasi potesse facilitargli l’impresa di immaginare gli oggetti. La teiera fischiava. I fiori erano stati regalati alla ragazza da un amico. Nessuno toglieva la teiera dal fornello elettrico. « Devo fare il tè? » chiedeva la ragazza. Non servì a nulla: quando diventò insopportabile, Bloch aprì gli occhi. La ragazza accanto a lui dormiva.

Bloch si innervosì. Da una parte quest’invadenza dell’ambiente quando aveva gli occhi aperti, dall’altra quest’ancor peggiore invadenza delle parole per le cose dell’ambiente, quando aveva gli occhi chiusi! ‘Chissà se dipende dal fatto che ho appena dormito con lei?’ pensò. Andò in bagno e si docciò a lungo.

Quando tornò, la teiera fischiava davvero. « La doccia mi ha svegliata! » disse la ragazza. Parve a Bloch che gli parlasse direttamente per la prima volta. Non era ancora del tutto lucido, rispose. C’erano forse delle formiche nella teiera? « Formiche? » Quando l’acqua bollente che usciva dal bollitore incontrò le foglie di tè sul fondo della teiera, lui vide invece delle foglie di tè le formiche su cui una volta aveva versato dell’acqua bollente. Aprì di nuovo la tenda.

Il tè nel recipiente aperto, poiché la luce vi penetrava solo per la piccola apertura rotonda del coperchio, appariva stranamente illuminato dal riverbero delle pareti interne. Bloch, seduto al tavolo col recipiente, guardò fisso nell’apertura. Lo divertì, mentre chiacchierava distrattamente con la ragazza, il fatto di essere così affascinato dalla singolare luminosità delle foglie di tè. Infine abbassò il coperchio sull’apertura, ma nello stesso tempo smise di parlare. La ragazza non si era accorta di nulla. « Mi chiamo Gerda! » disse. Bloch non avrebbe affatto voluto saperlo. Non si era accorta di nulla? le domandò, ma lei aveva già messo un disco, una canzone italiana accompagnata da chitarre elettriche. « Mi piace la sua voce! » disse lei. Bloch, che non s’intendeva di successi canzonettistici italiani, tacque.

Quando lei scese un momento a prendere qualcosa per la colazione – «È lunedì! » disse – Bloch ebbe finalmente la possibilità di osservare tutto con calma. Mangiando parlarono molto. Dopo qualche tempo Bloch notò che lei parlava già come di cose proprie delle cose di cui lui le aveva appena raccontato, mentre invece lui, quando menzionava qualcosa di cui lei aveva appena parlato, ogni volta si limitava o a citare cautamente lei, oppure, non appena ne parlava con parole proprie, a premettervi sempre un estraniante e distanziante « questo » o « questa », quasi temesse di mescolare le sue faccende con le proprie. Se lui parlava del capomastro o per esempio di un calciatore di nome Stumm, poco dopo lei poteva semplicemente dire, con tutta familiarità, « Il capomastro » e « Stumm»; lui invece, se lei aveva menzionato un conoscente di nome Freddy e un locale chiamato « Stephanskeller », rispondendole diceva ogni volta: « questo Freddy? » e: « questo Stephanskeller? » Tutto ciò che lei adduceva lo tratteneva dall’approfondirlo, e lo disturbava che lei impiegasse, come gli pareva, con tanta disinvoltura ciò di cui lui parlava.

Alcune volte però, di tanto in tanto, per breve tempo la conversazione gli riuscì naturale come a lei: la interrogava e lei rispondeva; lei chiedeva, e lui dava una risposta naturale. «È un aereo a reazione? » – «No, questo è un aereo a elica. » – « Dove abiti? » – «Nel secondo distretto. » Per poco non arrivò a raccontarle della rissa.

 

(continua in libreria)

Fotografia header: Getty Editorial ottobre 2019

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