In anteprima il racconto di Edgardo Franzosini dal nuovo numero della rivista “The FLR – The Florentine Literary Review”

17.000.000 di parole

di Edgardo Franzosini*

È ad Atlanta, da una facoltosa famiglia di imprenditori, che l’11 maggio 1895 nasce Arthur Crew Inman. Della sua infanzia, della sua prima adolescenza ignoriamo pressoché tutto, se si eccettua il particolare che, giovane studente all’Haverford College, scopre la letteratura e comincia a comporre poesie.

I suoi versi, né belli né brutti, solo insignificanti, indugiano in assorte e delicate contemplazioni della natura, evocano con nostalgia e rassegnazione oscure età dell’oro o paradisi irraggiungibili, esaltano le verità eterne e un genuino amor di patria. In realtà, più che scoprire la letteratura, e quella particolare forma di esercitazione “divagante, incerta, raramente esemplare”, sono parole sue, “a cui si dà il nome di poesia”, Arthur prende, si direbbe, d’improvviso coscienza dell’attività dello scrivere. Attività intesa non come, sono sempre parole sue, “il semplice far correre la penna su un foglio”, bensì come “l’arte di consegnare se stessi, e interamente, alla memoria.” Da allora inizia a manifestarsi nel giovane Inman quell’impulso feroce e inarrestabile che lo indurrà, oltre che ad abbandonare la poesia, ad annotare instancabilmente tutto ciò che gli accade; ad appuntare con precisione ciò che, di quanto succede nel mondo, giunge alle sue orecchie; a fissare sulla carta ogni impressione, ogni considerazione che quegli avvenimenti, privati o pubblici, suscitano in lui; a riempire nel corso di quarantanni, con la sua calligrafia fitta e minuta, 155 quaderni (tutti di 350 pagine in quarto, giacciono adesso, conservati con cura, negli archivi della biblioteca della Brown University di Providence), a scrivere, lungo il corso della sua esistenza, poco meno di 17.000.000 di parole.

Il desiderio di Arthur di disporre di quanto più tempo possibile da dedicare allo scrivere, si scontra dapprincipio con una ovvia ma mortificante difficoltà. Quella cioè di non poter trascurare più del lecito il gran numero di obblighi, compiti, occupazioni che formano la trama densa e complicata della vita di ogni giorno. Non ultimi, nel suo caso, gli impegni di studente. Un improvviso malore che lo colpisce al terzo anno di corso, e al quale i medici non sanno attribuire altro nome se non quello di “collasso nervoso”, giunge provvidenziale. Oltre a dargli la possibilità di abbandonare l’Haverford College, gli permette infatti di accantonare, da quel momento in poi, ogni parvenza di vita normale. I genitori chiamano a consulto i migliori specialisti. Inman manifesta nell’ordine: problemi respiratori, disfunzioni del sistema gastrointestinale, disturbi del pavimento pelvico, emicranie, reumatismi al collo, alle spalle, alle gambe, infiammazioni alla gola e alle vie urinarie, prurito per tutto il corpo. Nessuno dei trentaquattro medici da cui viene esaminato azzarda una diagnosi chiara, inequivocabile. Allorché si tratta invece di pronunciarsi sulle ragioni che sembrano costringerlo a scrivere senza mai fermarsi, sono tutti concordi. L’affezione di Inman ha un nome preciso: “ipergrafia”, una forma di epilessia che colpisce il lobo temporale del cervello, la parte cioè che controlla il linguaggio. Quel che non si spiegano è il fatto per cui, mentre solitamente i malati di ipergrafia compongono testi privi di senso, sconclusionati e spesso deliranti, oppure, in un alfabeto o e in una lingua solo a loro nota, riempiono pagine e pagine di parole indecifrabili, quel che scrive Arthur si presenti, in realtà, con una forma ordinata, una sintassi e un’ortografia corrette, un contenuto indiscutibilmente logico e coerente. “Vostro figlio” concludono costernati i medici “è vittima di una grave intossicazione. Una specie di avvelenamento provocato da uno strenuo spirito d’osservazione e da un’incontenibile vocazione introspettiva.”

La ricerca di quiete e solitudine, fattori indispensabili in circostanze del genere, che avrebbe dovuto guidare Inman verso luoghi lontani e isolati (una capanna sulla cima del monte Washington, un faro lungo le coste del New England), lo spinge invece, curiosamente, verso una grande metropoli. Verso un appartamento ampio ed elegante situato al penultimo piano di un rispettabile edificio di Garrison Street, nel quartiere di Back Bay a Boston. L’appartamento numero 608. Naturalmente Arthur prende le sue precauzioni. Oltre a installarsi nel locale più angusto dell’abitazione, acquista anche tutti gli altri appartamenti che con il 608 confinano. In tal modo, pensa, non correrà il rischio che anche il più fugace o il più debole dei rumori lo possa disturbare o, peggio, interrompere mentre è impegnato nell’attività che assorbe ormai per intero tutte le sue energie. Nella stanza ci sono un letto, una poltrona e un tavolo pieghevole che serve da comodino. Nient’altro. Pesanti tende di velluto blu coprono l’unica finestra (la luce è un vero accidente per il suo delicato sistema nervoso). Una schiera di domestici ha il compito di provvedere al suo posto a tutte le incombenze della vita ordinaria. C’è chi si occupa di lavarlo. Chi di vestirlo. E c’è chi lo imbocca. Disteso sul letto o seduto in poltrona, in pigiama o in vestaglia, un quaderno appoggiato sulle ginocchia e una penna tra le mani, Arthur passa le sue giornate “impegnato nello sforzo”, come ama dire, “di trasformare ogni cosa in scrittura”. Se, di tanto in tanto, prende la difficile decisione di lasciare per poche ore la sua stanza, è solo dopo che su Boston è sceso il buio. A bordo di una Cadillac 1919 di colore nero, che il suo autista ha l’ordine di condurre senza mai superare le 30 miglia all’ora, Inman percorre le strade della città, annotando ciò che il progressivo peggioramento della vista e la luce artificiale dei lampioni gli permettono di scorgere al di là del vetro del finestrino.

“L’io non basta…” appunta un giorno Arthur sulla prima pagina di un quaderno appena iniziato. Da qualche tempo si è fatta strada in lui una convinzione. Per tener viva e nutrire quella sua strenua smania di scrivere, per accrescere ed espandere l’universo di parole che sta pazientemente costruendo, l’orizzonte del proprio “io” non è più sufficiente. “C’è bisogno di andare…”, riconosce, “oltre se stessi”. Oltre quella camera immersa nel buio e nel silenzio. Senza, beninteso, abbandonarla. Le pagine severe e autorevoli del Boston Globe e del Sentinel Ledger, e quelle più popolari del Boston Herald, ospitano di lì a qualche tempo un’inserzione così concepita: “Cercasi parlatori e lettori. Volete avere un’insolita, emozionante, eccitante esperienza? Cinque dollari all’ora per tenere compagnia ad uno scrittore infermo. Presentarsi…”. Il rinvenimento del cadavere di Baby Lindbergh, il primo tentativo di evasione da Alcatraz, l’esplosione di un deposito di melassa in un quartiere di Boston, la nomina di Adolf Hitler a cancelliere della Germania, le 400 battute valide di Ted Williams, l’attacco giapponese alla base di Pearl Harbour, il lancio in orbita dello Sputnik, sono alcuni dei faits-divers che Arthur passerà diligentemente in rassegna con quanti verranno ammessi nella stanza dalle tende di velluto blu, e calda come una serra, di Garrison Street. Neppure (occorre dirlo?) le vicende della loro vita privata rimarranno escluse dalle conversazioni con quell’insaziabile ascoltatore. Neppure i segreti più intimi, le confidenze più dolorose, quelle più delicate. Inman annota tutto. Le pagine, giorno dopo giorno, si aggiungono alle pagine. I quaderni si assommano ai quaderni.

“5 emicranie stamattina e 7 questo pomeriggio, accompagnate da nausea e vomito…”. Oppure: “Presi 6 sonniferi. Hanno fatto poco…”. Sempre più di frequente Arthur si ritrova a dover accennare a particolari come questi. I suoi occhi sono sempre più insofferenti alla luce (“persistenti dolori al bulbo oculare…”, scrive sconsolato, “ininterrotte contrazioni delle palpebre…”). Le sue orecchie sono sempre più sensibili al rumore. È in special modo il frastuono del traffico cittadino che dalla strada, filtrando attraverso muri, vetri e tendaggi, sale fino a raggiungere l’appartamento 608, a tormentarlo. Al colmo dell’esasperazione Inman dà mandato ai propri legali di aprire un contenzioso con il Municipio di Boston. Incontri, colloqui, trattative si concludono con quella che gli amministratori, forse non del tutto a torto, considerano: “una straordinaria concessione”. Quando gli viene riferito l’esito della controversia, Arthur mette per qualche ora da parte i suoi quaderni, scende in strada e, in vestaglia di seta, reggendo una latta di vernice in una mano e un pennello nell’altra, inizia, ginocchioni, a tracciare sull’asfalto, a caratteri enormi, allineate con cura e disposte in colonna, dall’ingresso di casa sino all’angolo di St. Botolph Street, le parole: SLOW, SLOW, SLOW.

Trascorrono gli anni e i dolori alle dita della mano destra (soprattutto, com’è ovvio, al pollice, all’indice e al medio) diventano per Arthur spasimi nelle carni, lancinanti trafitture che già da metà giornata si trasmettono progressivamente alle braccia, al collo, alle spalle, alla schiena, ai fianchi. Ormai assume 11 pillole di sonnifero per notte. Ma anche quando dorme sogna di scrivere. E, quando si sveglia, scrive di aver sognato di scrivere. Da qualche tempo ha preso l’abitudine di tenere una Colt M1911 sotto il guanciale. “Se nel corso della giornata riesco per pochi minuti a posare la penna, è solo per impugnare questa magnifica arma… La sua presenza mi dà un tale conforto…”, annota con una grafia che non è mai stata tanto aguzza e malferma. Un giorno il fischio di una sirena annuncia a tutta Back Bay che la demolizione dei vecchi palazzi che occupano, grigi e austeri, l’altro lato di Garrison Street, il lato dirimpetto all’appartamento 608, può avere inizio. Il progetto è quello di innalzare un unico, grandioso edificio che raggiunga almeno i 230 metri d’altezza. Tutte le mattine, già dalle prime ore, gli escavatori e le ruspe sono al lavoro. Più tardi entrano in funzione i bulldozer, le benne e le motolivellatrici. Al rumore si aggiungono le vibrazioni. È una sofferenza, un supplizio, scrivere in mezzo a tutto quel rumore. Specie se, com’è nel caso di Inman, non si è in grado di smettere. Una mattina, al colmo dell’ennesima, atroce, notte d’insonnia, mentre stringe fra le mani la Colt (e la fissa, e la soppesa, e torna a fissarla, e la accarezza), dall’arma parte inspiegabilmente un colpo. Il proiettile, oltre ad attraversare lenzuola, coperte e materasso e ad arrestarsi contro una tavoletta di legno del pavimento, perfora il quaderno che Arthur ha abbandonato per qualche minuto, aperto, sul bordo del letto. Ai domestici che, dopo aver bussato con timorosa prudenza, esitano indecisi sulla soglia della stanza (non possono oltrepassarla senza il permesso del loro infelice padrone) Inman chiede: “Non somiglia a un punto?”. Il suo viso sembra esprimere più sorpresa che smarrimento. “Un punto…” ripete indicando con la canna della Colt il buco scuro che spicca sul bianco della pagina, proprio là dove si chiude una frase. “Un enorme, spaventoso punto…” Tre giorni dopo quello sparo fortuito, la notte del 5 dicembre 1963, con un secondo, preciso colpo di pistola, Arthur Crew Inman mette fine alla sua vita.

the flr

L’AUTORE DEL RACCONTO* – Edgardo Franzosini ha pubblicato: Il mangiatore di carta (SugarCo), Raymond Isidore e la sua cattedrale (Adelphi), Bela Lugosi (Adelphi), Sotto il nome del Cardinale (Adelphi), Sul Monte Verità (Il Saggiatore). I suoi libri sono stati tradotti in Francia, Spagna e Germania. Nel 2015 ha pubblicato Questa vita tuttavia mi pesa molto (Adelphi) che ha vinto il Premio Comisso e il Premio Dessì e che uscirà il prossimo anno negli Stati Uniti.

IL NUOVO NUMERO DELLA RIVISTA –  Una rivista letteraria di inediti a numeri monografici illustrati da un artista emergente, con racconti di scrittori italiani in versione bilingue. Esce il secondo numero di The FLR – The Florentine Literary Review, ed è dedicato al desiderio. Gli autori protagonisti sono Marco Rossari, Sergio Nelli, Alessandra Sarchi, Antonella Anedda, Antonio Turolo, Alcide Pierantozzi, Claudia Durastanti ed Edgardo Franzosini. Le illustrazioni sono firmate da Adam Tempesta. La traduzione è stata affidata a Anne Milano Appel. Qui maggiori informazioni.

L’APPUNTAMENTO – Domenica 21 maggio, alle 12.30, il Salone del libro di Torino ospiterà la presentazione del nuovo numero della rivista The FLR. Nella Sala Avorio interverranno Martino Baldi, Edgardo Franzosini, Alessandro Raveggi (curatore) e Vanni Santoni.

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