Ryan Gattis in “Giorni di Fuoco” racconta la rivolta che nel 1992 si levò dalle strade di Los Angeles incendiando la città. A distanza di oltre venti anni, ha raccolto la testimonianza delle periferie, e ha scritto un romanzo corale. A ilLibraio.it spiega com’è nata quest’opera (e parla del suo stile): “Ho sentito la viva voce delle persone e probabilmente è proprio dalla forza di questi incontri che ha avuto origine la commistione di più temi. La lotta tra sentimenti è all’ordine del giorno, in quelle strade” – Intervista

Oltre quattrocento pagine di azione, pensieri, colpi di scena e… fiamme: il romanzo di Ryan Gattis con cui ha esordito in Italia, Giorni di fuoco (Guanda), racconta da una prospettiva davvero insolita gli scontri di Los Angeles del 1992. La tv e i giornali ci avevano tempestati, allora, perché era un caso quasi unico per forza e intensità: in seguito a un processo da cui erano stati scagionati i poliziotti che avevano malmenato un tassista di colore, la città è stata messa a ferro e fuoco per sei giorni. L’inferno, per le strade, ma soprattutto l’occasione per portare alla luce (delle fiamme) vendette covate per anni, ma anche per dimostrare lealtà e amicizia verso gli altri fratelli delle gang. E dunque Gattis si infiltra in questa realtà, lascia che siano i suoi personaggi a parlare e a raccontare la L.A. trasformata dalle rivolte, tra amore e odio, sincerità e bugie, violenza e atti di salvezza, droghe e tentativi di fuga, pallottole e fumo. ilLibraio.it ha intervistato l’autore a Milano, in occasione del suo tour italiano.

Molti hanno parlato del suo romanzo come di un romanzo corale; è forse più corretto ritenerlo una coralità di individui, perché ogni personaggio è ben riconoscibile e ha una propria identità netta. Come ha lavorato per raggiungere tale obiettivo?
“Ho vissuto questo libro come una sinfonia jazz, che dà la possibilità di improvvisare, ma al tempo stesso garantisce un effetto fluido. I miei personaggi sono tanti strumentisti, ognuno contribuisce con la propria esecuzione e la propria parte a una musica omogenea e unica, che non sarebbe la stessa senza ogni componente. Nel ‘giorno 1’ (che rappresenta anche la prima delle sei macro-sezioni del romanzo, ndr) c’è un momento in cui tutti i personaggi compaiono per un breve momento: non so se è evidente, ma volevo creare una sorta di overture, che apre l’opera intera”.

Dunque, non un romanzo storico tout court, ma un’opera estremamente creativa e personale. Proprio a questo proposito, visto che siamo nel mondo dell’informazione rapida, e basta collegarsi a internet o accendere la tv per sapere gli ultimi eventi, pensa che il racconto della storia, ora andrebbe fatto da nuove prospettive? Ad esempio, dal basso, come i suoi personaggi, che hanno vissuto e interpretato le rivolte di Los Angeles dalla strada?
“Credo sia molto utile per una fiction storica avere la possibilità di raccontare i fatti con quel senno di poi che ci consente di prendere le distanze dagli eventi. Infatti, questo libro non è solo la storia di quelle sei giornate, ma muove da lì per vedere poi come la storia è evoluta. Secondo me, questo è un trucchetto che opera ogni (degno) scrittore di libri storici: parte dai fatti ma li osserva in prospettiva, li reinterpreta alla luce del suo presente. Poi, certo, ricorrere agli archivi, esaminare tutte le registrazioni disponibili su Youtube, sono tutti passi fondamentali, ma non bastano, o si diventa cronachisti, non narratori. Io mi sono preso la briga di tornare in quei luoghi, di respirare l’atmosfera di strade e quartieri, e soprattutto parlare con le persone coinvolte nei fatti del 1992. Poi, certo, a me è toccato riordinare quei fatti e collegarli, affinché avessero un senso unitario”.

Proprio a tal proposito, pensa che ci voglia un tempo minimo per affrontare la storia, prima di narrativizzarla?
“È una grande domanda, a cui però è molto difficile rispondere. Ci tengo a ripetere che il senno di poi aiuta moltissimo: solo la distanza ci consente di andare in profondità; per questo forse il mio è il primo libro che esce sugli eventi a distanza di 23 anni dai fatti”.

In questi giorni, si discute molto dell’impatto che possono avere i social network nel commentare la storia e si contano più tentativi di mettere un bavaglio alle opinioni, oscurando siti e strumenti. Secondo lei davvero i social sono un archivio di commenti tanto temibile?
“I social network sono un archivio di qualsiasi cosa, soprattutto un archivio di emozioni e di reazioni, ma non c’è ragionevolezza, né ordine nei tweet! Forse è un archivio che mostra come la gente ha reagito a un determinato evento, senza filtri di sorta, a volte senza razionalità, ma d’istinto… Può avere un valore, questo?! Scriverne e ispirarsi a ridosso degli eventi potrebbe essere rischioso, il tempo tra un evento e il suo racconto non passa invano…”.

Tornando al libro, è molto interessante passare in rassegna le diverse traduzioni del titolo: rispetto all’originale Allinvolved, alcuni (Spagna, Francia, Svezia) hanno dato molta importanza alla durata temporale dei ‘sei giorni’; in Italia e Germania si è prestata attenzione all’effetto simbolico del fuoco e della rabbia onnipresenti. Cosa pensa di queste scelte?
“Bella domanda! Io volevo narrare una grande storia su Los Angeles e scegliendo un titolo di slang come Allinvolved, sapevo che avrei dato dei problemi negli altri Paesi, ma ho accettato la sfida e ho osservato come i traduttori se ne sono occupati. Io non conosco gli svedesi, gli spagnoli, o gli italiani, ma sono rimasto molto affascinato dalle diverse scelte abbracciate. Se vogliamo, sono già in qualche modo un’interpretazione del mio testo: non ce n’è una giusta o una sbagliata, ma ognuna è vicina alla sensibilità di un determinato pubblico di lettori”.

A proposito delle tematiche, nel libro dominano contrasti forti, come famiglia e vendetta, lealtà e amicizia contrastano nettamente con rabbia e violenza. Si tratta di una “rivolta tematica” ideata a tavolino o nata nella fase di stesura?
“Voglio premettere una cosa: dopo otto anni a scrivere, senza alcune pubblicazione, ero quasi al capolinea. Poi mi sono trasferito a Los Angeles e lì mi sono unito a un gruppo che si dedica all’urban art. Mi hanno detto di unirmi a loro, benché fosse chiaro che io non avessi velleità artistiche, ma frequentare le strade di Los Angels mi ha permesso di parlare con la gente. Insomma, ho iniziato a fare ricerca prima ancora di accorgermene: davo ascolto alle persone dei rioni poveri, dove tutti mi sconsigliavano di andare, e lì sono venuto a contatto col dolore, ma anche con la lealtà delle persone. Sono cose presenti un po’ ovunque, ma era tutto più acceso, più vivido, più forte… Ho sentito la viva voce delle persone e probabilmente è proprio dalla forza di questi incontri che ha avuto origine la commistione di più temi. La lotta tra sentimenti è all’ordine del giorno, in quelle strade”.

E questa forza scaturisce perfettamente da ogni pagina. Forse anche grazie al fatto che i narratori sono i singoli personaggi, che raccontano passato e presente senza filtri, né giudizi. Ha mai avuto la tentazione di dire la sua e “metterci lo zampino”, indirizzando il lettore?
“No, mai. Questo viene in parte dalla mia modalità di ricerca: in fondo io me ne stavo lì seduto, ascoltavo cose cruente che non avrei mai immaginato, e in tante occasioni dovevo sospendere il giudizio, per sforzarmi di capire perché fossero avvenuti atti tanto crudi. Registravo i ragionamenti che avevano portato a esiti drammatici, ma non li giudicavo. E poi ho sempre odiato i libri che cercano di importi le idee dell’autore: per questo ho lasciato che parlassero i personaggi, e che il lettore non stesse ingessato con un unico personaggio per tutto il libro, ma conoscesse più realtà, chiamandolo a intervenire, sfidandolo a capire oppure a non accettare le scene. Questa forma di apertura alla comprensione di regole diverse viene anche dalla cultura o sub-cultura delle gang. Il tutto ha dato sia un’estensione che anche una profondità al romanzo, cose che in tv non ci possono essere”.

Dunque, come si pone nei confronti delle riduzioni cinematografiche?
“Ormai i diritti di Giorni di fuoco sono stati venduti, vediamo cosa ne uscirà! (Ryan Gattis sorride, ndr). I diritti sono stati venduti ad HBO, perché sono il meglio in fatto di serie tv; e tra l’altro sono già molto bravi nel realizzare serie che parlano di realtà cittadine; penso ad esempio a Baltimora o ad Atlantic City. Sicuramente, se arriverà sullo schermo, Giorni di fuoco rappresenterà un nuovo modo di sperimentare la narrazione, a partire dai tantissimi personaggi. In attesa di saperne di più, comunque, mi dedico al mio nuovo romanzo…»

A tal proposito, pur senza fare spoiler, potrebbe dirci un dettaglio, un personaggio o l’ambientazione del romanzo che sta scrivendo?
“I personaggi si muoveranno a Los Angeles (in particolare nella zona di South Central), ma volete sapere di più, immagino?! Bene, allora vi dico che è ambientato nel 2008 e ha per protagonista un uomo che per tutta la vita si è dedicato a scassinare casseforti per l’FBI o gli sceriffi. Ancora una volta, tratterò di una parte della storia che di solito resta sepolta, di cui non parlano i media”.

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