“The FLR. The Florentine Literary Review”, nuova rivista letteraria in italiano e inglese, propone racconti e poesie di autori contemporanei italiani. In anteprima su ilLibraio.it “Febbre” di Elena Varvello

Dopo una campagna di crowdfunding sulla piattaforma Indiegogo, conclusa la scorsa primavera, esce il primo numero di The FLR. The Florentine Literary Review, rivista letteraria in italiano e inglese, che propone racconti e poesie di autori contemporanei italiani: storie e versi pubblicati per la prima volta e con traduzione inglese a fronte.

The FLR, acquistabile a questo link, è diretta da Alessandro Raveggi e da un comitato editoriale di scrittori, traduttori, critici e curatori.

“Invasione” è il tema e parola chiave esplorata da 6 narratori italiani (Varvello, Funetta, Tuena, Ricci, Leogrande e Ruotolo) e 2 poeti (Ulbar e Simonelli) nel primo numero, pubblicato anche in occasione del 50° anniversario dell’alluvione fiorentina del 1966.

The FLR

Per gentile concessione della rivista, proponiamo la versione italiana del racconto di Elena Varvello, il cui ultimo libro, il romanzo La vita felice, è stato pubblicato da Einaudi.

FEBBRE 

di Elena Varvello

Mio padre se n’era andato ai primi di settembre. Aveva conosciuto una ragazza, se n’era innamorato. Mia madre lo scoprì, si mise a piangere, gli ricordò che aveva una famiglia, lo supplicò di ripensarci e infine perse la ragione e ruppe qualche piatto, e poi gli urlò di togliersi dai piedi.
“Dovresti vergognarti.”
Lui non provò a giustificarsi e non promise nulla. Disse soltanto: “Mi dispiace”, entrò nella mia camera da letto, mi strinse a sé, mi sussurrò all’orecchio: “Non volevo”, tornò nel corridoio, si guardò intorno, raccolse le valigie e uscì.
Rimasi sulla porta, mentre saliva in ascensore. Mi fece un cenno di saluto – un gesto pieno di rimpianto – e se ne andò, ed è così che è incominciata.

Lei si chiamava Paola, sapevo solo questo da principio. Odiavo il nome Paola e odiavo lei, pur non avendola mai vista. La immaginavo orribile, insopportabile e crudele, un’egoista senza cuore, e non riuscivo a credere che lui l’avesse preferita a noi, la sua famiglia.
Portò con sé i vestiti, gli oggetti personali e qualche libro e tornò a vivere dai suoi, una sistemazione provvisoria. Veniva a prendermi due volte a settimana e mi chiamava tutti i giorni. Io non facevo che ripetergli: “Perché non torni a casa?”, e lui mi rispondeva: “Ormai non posso più”. Sempre la stessa storia.
Provò a spiegarmi che l’amava, anche se io non ci credevo – “non è possibile” – ed ero certa che avrebbe capito presto quant’era brutta e stupida.
“Amo quella ragazza”, disse. “Non dovrei dirtelo, però è così. Spero che tu riesca a capire, un giorno. Non voglio raccontare più bugie. Ti piacerebbe, è in gamba.”
Io mi voltai dall’altra parte. Avrei voluto che tacesse, che la smettesse di parlarne.
“Con lei la vita è stata dura”, aggiunse.

Si conoscevano da mesi. Stava rientrando dal lavoro – era un rappresentate – ed era stanco morto e aveva voglia di un caffè. Si era fermato a un autogrill. Lei era lì, seduta su un gradino dell’ingresso, stringeva la sua borsa. Aveva appena finito il turno nel self-service. Aveva un brutto livido sul collo, coperto da una sciarpa, e stava singhiozzando.
Mio padre le aveva chiesto se si sentisse male, se avesse bisogno di qualcosa.
“Posso aiutarla?”
Avevano parlato, seduti sul gradino.
“Non ho mai preso quel caffè.”
“Non m’interessa”, dissi. “Voglio che tu ritorni a casa. E pure mamma.”
Non mi ricordo dove fossimo. Ricordo solo che mi coprì una mano con la sua, la strinse forte e poi si sporse verso di me per darmi un bacio sulla fronte.

fini. Strizzava gli occhi e stava sorridendo, ma forse non si trattava di un sorriso, solo le labbra tese dentro una luce che accecava. Non era orribile, in effetti. Però non era bella. Una ragazza come un’altra.
Quando mio padre uscì dal bagno, io gli mostrai la foto.
“È questa?”, domandai, anche se mi pareva ovvio.
Lui avvampò, un ricciolo di schiuma sulla guancia.
“Bastava che chiedessi”, disse. “Credevo non ti andasse di vederla.”
“Ma che ci trovi? Perché ti piace tanto?”
Scrollò le spalle, prese la foto e la guardò con tenerezza, poi la rimise nell’armadio.
“Non so spiegartelo”, rispose, mentre chiudeva l’anta. “Io voglio ancora bene a mamma, ma è come quando ti viene la febbre: prima non c’era e dopo c’è. E non puoi farci niente, non c’è una medicina.”
“Ha due bambini”, dissi, “ed è sposata pure lei. Non dovevate farlo”.Ed è così che è incominciata. Un autogrill, qualche chilometro al casello. Lei si chiamava Paola, veniva dalla Puglia, aveva venticinque anni – mio padre quarantotto. Era sposata e aveva due bambini. Lui si era innamorato e io la odiavo.
Trovai una foto a casa dei miei nonni, frugando nell’armadio – la camera da letto in cui era cresciuto – mentre mio padre, in bagno, si radeva. In quella foto, lei era su uno scoglio, il mare alle sue spalle. Aveva indosso un abito che assomigliava a un sacco, ai piedi un paio d’infradito. Capelli crespi e
Si strofinò la guancia, quel ricciolo di schiuma, poi s’incupì, schiuse le labbra ma non aggiunse altro.

La settimana dopo, quell’uomo ci chiamò.
Solo il respiro, da principio, poi cominciò a parlare, mi domandò chi fossi, fece una mezza risatina e disse: “Dovresti dire a quel bastardo di lasciar perdere mia moglie, e che altrimenti io lo ammazzo”.
Mia madre sfilò il telefono dalla mia mano, gli disse che non doveva più comporre il nostro numero, che non doveva più permettersi, che lui se n’era andato.
“Deve lasciarci in pace.”
Però il telefono squillò di nuovo, e lo sentii imprecare e minacciare, prima che lei mettesse giù.
Lo dissi subito a mio padre, quando mi venne a prendere – saremmo andati in pizzeria. Lui sospirò, mordendosi le labbra, e poi rimise in moto.
“Alza le mani, quello”, disse, e mi tornò alla mente il livido, coperto dalla sciarpa, di cui mi aveva raccontato. “La picchia. Lei deve prendere i suoi figli e andarsene di lì.”
Non m’importava di nessuno – quella ragazza e l’uomo e quei bambini. Ma m’importava di mio padre ed ero spaventata.
“Ha detto che ti ammazza.”
“Non preoccuparti. Io so difendermi benissimo. Devo difendere anche lei.”
Non ci dicemmo molto, in pizzeria. Guardava fuori, le macchine e la strada, le luci dei lampioni e alle finestre, il cielo che scuriva. Le sagome degli alberi che costeggiavano il viale. Chiese notizie di mia madre e della scuola e poi non disse altro.
A un certo punto, un cameriere fece cadere un piatto: lui sussultò, chiuse le mani a pugno e si voltò verso la porta e fece per alzarsi.
“È solo un piatto”, dissi.
Poggiò le mani ancora chiuse sopra il tavolo, il collo allo schienale della sedia, e poi si mise a ridere.

Non chiesi mai come riuscissero a vedersi e dove. Speravo sempre che tornasse, speravo che cambiasse idea.
Anche mia madre lo sperava.
Lui diventò più silenzioso, e si guardava intorno quando passeggiavamo, quando veniva a prendermi, quando scendeva dalla macchina, e mi seguiva con lo sguardo mentre rientravo in casa, non se ne andava finché non mi vedeva in ascensore.
Quell’uomo telefonò per qualche giorno, poi la piantò, tutto d’un tratto, come una bestia che si disinteressi della preda per una preda più sicura.

Mentre ero a cena dai miei nonni, una sera, il cellulare di mio padre incominciò a squillare. Lui non rispose subito, si alzò e se ne andò in balcone. Sapevo che era lei. Restò là fuori a lungo, mentre la nonna sparecchiava. Lo vidi che si appoggiava alla ringhiera, la schiena curva di mio padre. Lo vidi gesticolare e poi annuire. Quando rientrò, sembrava impallidito.
“Ti riaccompagno”, mi disse.
“Ma è ancora presto.”
“Sono stanchissimo, devo buttarmi a letto.”
Mi strinse in un abbraccio, di fronte a quella che era stata casa sua.
“Va tutto bene?”, domandai.
Non mi pareva più mio padre, in quell’istante.
“Saluta mamma”, disse. “Adesso vado a letto. Ti chiamo io domani.”


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Rientrava dal lavoro, voleva prendere un caffè. Lei era uscita, si era seduta sul gradino e aveva incominciato a singhiozzare, sfilandosi la sciarpa, sfiorandosi quel livido. Forse pensava ai suoi bambini, come scappare insieme a loro. Forse pensava a suo marito, le botte che le dava, il fatto che l’avesse amato, un tempo, e si stava chiedendo dove fosse finito quell’amore.
Lui le lasciò il suo numero.
“Se posso fare qualche cosa.”
Lei salì in macchina, lo salutò. Mio padre la guardò mentre imboccava l’autostrada: si era scordato del caffè.
Lei lo chiamò. Parlarono soltanto per telefono, all’inizio. Non so cosa si dissero. Andò così per qualche mese. E poi si diedero un appuntamento – non ho mai chiesto dove e quando – e allora lui s’innamorò e continuò ad amarla.
Di lei non posso dire con certezza, ma credo che avvertisse quella febbre – immagino che avesse preso entrambi – e che sperasse ancora, in qualche modo, nella felicità.

Lui non andò a dormire. Paola gli aveva chiesto aiuto, per telefono: non ci pensò un istante.
Guidò velocemente fin sotto casa sua e le mandò un messaggio – quella ragazza in un parcheggio, quella ragazza su uno scoglio, in riva al mare, dentro una luce che accecava.
Lei corse fuori, disperata, e salì in macchina.
Forse mio padre fece per partire – voleva metterla al sicuro, portandola con sé – ma lei gli disse dei bambini. “Li ho chiusi a chiave in una stanza. Devo tornare a prenderli.”
Fu in quell’istante che suo marito uscì. Aveva incominciato a piovere. Qualcuno lo sentì gridare: “Apri, ti ho detto apri, brutta stronza”. Picchiava sul tettuccio e prese a calci la portiera. Rientrò e uscì di nuovo. Portò con sé un martello. Mandò in frantumi un finestrino e tolse la sicura, mentre sua moglie urlava, coperta dalle schegge, la prese per un braccio e poi per i capelli, la trascinò sul marciapiedi.
Mio padre scese dalla macchina, a quel punto, mostrandogli le mani, la pioggia che batteva, gli disse di calmarsi, “Adesso calmati e parliamo”, e allora lui mollò la presa – aveva ancora quel martello – e poi accadde tutto il resto.
Nessuno fece niente, nessuno li aiutò.

Ripenso spesso a quei bambini che lei aveva chiuso in una stanza. Quella ragazza su uno scoglio, con un vestito come un sacco e le infradito. Una ragazza come un’altra. L’avevo odiata così tanto. Avrei voluto che sparisse.
Ma soprattutto penso a lui, mio padre: lo immagino abbassare le sicure e barricarsi in automobile, come se fosse sufficiente, immagino quei colpi sul tettuccio e i calci contro le portiere, immagino che stringa la sua mano e che le dica: “Ci penso io, non preoccuparti”, a separarlo dalla fine soltanto la lamiera, mentre i rumori dall’esterno diventano silenzio, per un attimo, mentre la pioggia scivola sul parabrezza.
E penso spesso a quella febbre – era così, l’amore, per mio padre? Ed è così per tutti, e non possiamo più guarire? È inutile cercare di capirlo.
Vorrei soltanto dirgli di tornare, perché gli voglio bene. Se solo fosse ritornato, penso. Ma poi a volte, nel silenzio, quando mi pare di vederlo mentre fa un cenno di saluto, un cenno pieno di rimpianto, prima di andarsene di casa, vorrei potergli dire che lo so. Vorrei potergli dire che ho capito.


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