“Non so cosa mi sia successo. Era il centesimo dibattito sulla riforma costituzionale. Tutto a memoria. Sono arrivato nello studio televisivo e…”. Inizia così il racconto di Lorenzo Fazio ispirato all’attesa per il Referendum costituzionale

La notte del Referendum

Non so cosa mi sia successo. Era il centesimo dibattito sulla riforma costituzionale. Tutto a memoria. Sono arrivato nello studio televisivo, avevo con me un dossier sull’ultimo scandalo che aveva coinvolto uno dei rappresentanti del “fronte avverso”, come diceva Veltroni, sapevo che l’intervistatrice sarebbe arrivata prima o poi lì, e mi avrebbe chiesto di intervenire, avevo pronta anche la risposta a un eventuale attacco del mio avversario riguardo allo scandalo del giorno prima che aveva coinvolto uno dei nostri. Importante è avere subito la possibilità di attaccare e far valere i fatti per quello che son perché io credo nella giustizia e credo che i cittadini aspettino da noi politici comportamenti equilibrati e giusti. Dobbiamo dare l’esempio. Sempre. E dunque, è bene che chi ci ascolta abbia una idea corretta di quanto avviene nel nostro mondo e di quello che siamo. Se un mio nemico politico, pardon avversario, meglio: interlocutore, mi attacca portando all’attenzione del pubblico uno scandalo del mio partito è giusto che io faccia altrettanto con lui. Siamo qui per questo, per mettere in chiaro le nostre posizioni senza paure. Siamo tutti sullo stesso piano.

Lorenzo FazioLorenzo Fazio

Dunque sono entrato nello studio. Tranquillo. La coscienza a posto, certo di aver fatto sempre il mio dovere e proprio per questo deciso a sostenere le mie posizioni senza timori. Importante è dare risposte ai cittadini. Io modestamente credo di agire sempre per il bene comune, ho dietro di me una lunga esperienza nel campo del volontariato, ho trascorso i miei più begli anni in una comunità per il recupero di giovani tossicodipendenti. Ho visto in faccia la sofferenza e credo modestamente di sapere che cosa vuol dire dedicarsi agli altri. Ecco la nostra vera missione. E ora sono qui, a difendere non me stesso ma un’idea alta di politica, intesa come servizio. Ho dalla mia le istituzioni, le fondazioni bancarie, tanti imprenditori, tanta gente che mi ha dato fiducia e mi ha sostenuto anche nella mia carriera politica. Io ci metto la faccia. Io sono come Gramsci: odio gli indifferenti, prendo posizione anche se non lo faccio mai per difendere una mia convinzione ma per arrivare a un risultato il più possibile vicino all’idea che ho in testa.

Dicono che faccio parte del sistema. Ma cosa vuol dire? Se il sistema ti permette di realizzare gli ideali che hai in mente ben venga il sistema. Io conosco tutti, lo so, ma non perché sono uno che va d’accordo con tutti, solo perché attraverso il consenso si riesce a trovare una soluzione ai problemi. Sono un uomo concreto e ammiro i buoni, sì le persone buone. Don Mazzolari, don Milani, don Gallo, don Ciotti, sono i miei santi, la mia luce. Ho tutti i loro libri. Credo nella pace, anche quella dello spirito, ma so che la pace si ottiene con la guerra, e lo scontro non esclude l’incontro, anzi lo favorisce, e lo rende più forte e sicuro. Com’è il mondo, basta girarlo dalla parte giusta, ma basta poco per non capire qual è la parte giusta e imboccare il senso unico sbagliato.

Mi perdo nelle parole, torniamo al racconto. Nello studio c’erano le solite luci, la solita atmosfera. Io dovevo parlare per secondo, quindi avevo la possibilità di ribattere alle posizioni del mio avversario, pardon interlocutore. Tutto bene. Chi mi stava davanti era uno dei miei colleghi che siede nella parte opposta alla mia in Parlamento e col quale spesso ci scontriamo sebbene entrambi siamo ben consapevoli di stare lavorando a una stessa idea di giustizia e di verità, naturalmente ciascuno a modo suo. La verità ha tante facce. Giusto che ci sia una versione A e una versione B. La democrazia deve dare voce a entrambe, non a tutte! Basta organizzarsi. Beati i tempi quando in tv c’era il canale della Dc, quello del Psi e quello del Pci: quella era la democrazia! La verità in sé non esiste, dipende dalla prospettiva con cui si vedono le cose, la prospettiva allunga lo sguardo, tradisce la realtà, ci fa sentire da un’altra parte, ma siamo noi che guardiamo e allora siamo noi che dobbiamo impadronirci della verità, quella in cui credere e per la quale battersi. Le verità accertate, documentate, verificate non esistono. La democrazia è troppo fragile per sopportare quelle verità. Nessuno Stato si processa e si condanna. La verità va di volta in volta soppesata nelle sue conseguenze e quindi calibrata. Se no crolla tutto. Crolliamo noi, crollo io.

La verità, vi prego, sull’amore scrive W.H. Auden. Ecco, quella è un richiesta impossibile. Anche in amore è sbagliato inseguire la verità per la verità. Anche l’amore vuole che costruiamo una verità che non faccia male, che non ci tradisca, che scaldi il cuore ma plachi subito la passione. Anche l’amore va addomesticato se no fa male. E così la politica: troppa passione annebbia la mente, allontana la ragione.

Dunque ero in studio. Il mio avversario, pardon interlocutore, parte a raffica con i soliti argomenti, le sue espressioni colorite ormai le conosco a memoria. Sono pronto a sparare le mie pallottole, le munizioni le ho pronte ma quando comincio a parlare succede una cosa strana. Sento che le mie parole non sono esattamente quelle che mi ero preparato, quelle che mi avevano portato a occupare la poltrona su cui ero seduto. Non riesco a dare torto al mio avversario e recupero le sue ragioni prendendo quello che io stesso sapevo c’era di vero e di buono nel suo discorso. Tutto il contrario di quello che ero chiamato a fare. A un certo punto – non ci posso credere – mi sono lasciato andare a dire: da qui dobbiamo ripartire, non c’è più un no o un sì da difendere, dobbiamo rifiutare insieme questa contrapposizione e capire perché siamo arrivati a dividere il paese in un momento tanto difficile e a scontrarci sulla Costituzione che ha come primo obiettivo quello di unire tutti gli italiani, e che rappresenta il momento massimo di sintesi di una nazione che si riconosce tutta nei suoi articoli.

Finito di parlare ho avuto la spiacevole sensazione di non essere padrone di me stesso e di aver suscitato nei miei interlocutori un certo malessere e disorientamento. Anche io ero disorientato e sorpreso. Chi stava parlando al posto mio? A quel punto mi sentii perduto, mi tremavano le mani, sudavo, mi sembrava di non aver la forza di parlare e cercavo solo di respirare per non soffocare. “E quindi? – dice la giornalista – Vota sì o vota no?” Silenzio. “Le ripeto la domanda: vota sì o vota no? Perché questa è già una notizia, nessuno si sarebbe aspettato da lei parole così francamente spiazzanti. Lei sta abdicando al ruolo per cui è stato invitato a questa trasmissione. Onorevole?”. Capivo che mi stavo giocando in quegli istanti tutta la mia carriera politica. Faccio un respiro e provo a parlare: “Non sono qui a mettere una croce su un sì o un no, sono qui per aiutare i cittadini a scegliere mettendo sul tavolo tutte le questioni in campo e poi chi mi ascolta deciderà per il meglio.” Pausa. Mi sentivo come liberato. Riuscivo a respirare, ero confortato dalle parole che avevo pronunciato ma che non erano le mie. Ero lucidissimo e assente da me stesso. Semplicemente avevo buttato via il copione e non riuscivo più a recitare, mi mancava la parte. Forse, a mia insaputa, ne avevo guadagnato un’altra. Ma stavo lì, in quello studio pacchiano, tutto lustrini, di fronte alla giornalista che guardandola bene aveva un fondo tinta esagerato, e al mio “avversario” che stava parlando ma io non lo sentivo nemmeno, notai solo che aveva una bocca che mi faceva un po’ schifo, mentre in collegamento da casa sua un famoso storico dell’arte stravaccato su una poltrona di pelle rossa imbottita, pensando di avere l’audio, stava parlando e gesticolando ma nessuno lo ascoltava. Mi sembrò tutto assurdo e grottesco, e fu allora che mi venne fuori una risata irrefrenabile davvero imbarazzante, che non riuscii a trattenere. Eravamo in diretta. La giornalista annaspava, il collega mi guardava incredulo, e improvvisamente la voce dello storico dell’arte piombò come una valanga nello studio e l’effetto fu ancora più esilarante. Il regista aveva cambiato velocemente l’inquadratura e nessuna macchina mi stava più riprendendo mentre io ero piegato dal ridere sulla sedia. Intanto lo storico dell’arte inveiva contro noi politici, e capivo che stava urlando contro di me ma le sue parole non mi arrivavano comprensibili. Mi sembrava un cane arrabbiato, uno di quei mastini tutta faccia con le bave e il muso grosso. Era questo lo zoo in cui ero abituato a stare?

Dovevo cercare di recuperare un minimo di serietà ma qualcosa si era rotto. Sentivo che era come se avessi girato una chiavetta, in quel momento mi venne in mente la frase che mi disse una volta una ragazza che si era innamorata di me: con aria rassegnata ammise che la realtà non è come si crede a una certa età (la sua) e che quindi è inutile pensarla in termini assoluti, nera o bianca e così tutto il resto, anche le persone, anche la politica, “però, cazzo, c’è il giorno e la notte, per apprezzare la luce devi sapere com’è il buio, per capire e fare il bene devi avere attraversato il male e vivere almeno una volta la tua notte”. Ecco, quella sera forse ho vissuto anche io la mia notte. Una specie di rivelazione. Ho recuperato la lucidità e ho cominciato a parlare. Ma non della riforma costituzionale. La giornalista cercava di interrompermi, “non è questo l’argomento” diceva perentoria, sicura di avere ragione ma io non smettevo, lo storico dell’arte immobile sembrava una statua di gesso, l’altro allargava le braccia in segno di resa o di protesta, non so, e io andavo avanti. Da solo, nessuno più che osasse interrompermi, nemmeno la giornalista. Trascinato dalle mie stesse parole, come sospeso tra una realtà vera, impellente e una dimensione da sogno leggera, totalmente altra, inventata. Non sapevo più cosa sarebbe successo ma ero tranquillo, quello che mi usciva dalla bocca era davvero mio, sentivo che le parole arrivavano da un altro padiglione del mio cervello, da un altro angolo del mio cuore. So che a un certo punto parlavo di diritti delle persone, di tutte le persone, e dicevo che la Costituzione sarebbe da dare subito a chi arriva da noi e non sa che paese siamo. Sarebbe da insegnare nelle scuole e tenere negli alberghi, nei luoghi pubblici, per farne una cosa viva, per farla nostra. Chi mi ha visto in tv mi ha detto che sembravo un’altra persona, e che le mie parole sembravano dettate da un’urgenza, da una voglia di verità che non aveva mai sentito prima in un politico. A un certo punto mi sono messo a parlare delle formiche, come esempio di solidarietà da imitare. Quando c’è un’inondazione e capiscono che la loro tana sarà portata via dalla piena del fiume escono tutte dai loro buchi e si uniscono in una catena infinita fino ad arrivare nell’acqua senza esserne travolte. Unite tutte, abbracciate, incatenate, per vivere, per non morire. Adesso non so riferirlo bene, ma quella sera credo di averlo detto benissimo. Tutto si è svolto in pochi secondi. “Torniamo al Referendum” diceva il mio interlocutore. “Non cambiamo discorso”. “La Costituzione americana garantisce anche il diritto alla felicità e come tutte le Costituzioni anche quella viene dopo lotte, guerre, dopo tanto dolore, tanta sofferenza”, dico piano. “Ricordiamocelo quando andremo a votare che cosa sono le Costituzioni e perché sono nate”. E poi non so come devo aver parlato dell’amore, che l’amore è l’arma più rivoluzionaria che abbiamo a disposizione e che solo l’amore riesce a farci dimenticare la morte la malattia la penuria. “Tutti hanno diritto ad amare”, mi esce così. ”Anche chi viene da noi senza niente e che per guadagnarsi da vivere abbandona i figli e regala il suo affetto ai nostri cari. La Costituzione vale anche per loro”. A quel punto la giornalista riprova a tornare al punto: “Questo non è una tribuna, onorevole non può fare un comizio, siamo qui a parlare del Referendum. Gli italiani vogliono sapere che cosa votare”. “Votate per le vostre badanti” dico secco, “per favore onorevole!” “Con chi stanno i suoi genitori?” chiedo alla giornalista, “me lo dica, come si chiama la signora che li accudisce? Io so che la badante di mia madre ha lasciato un figlio in Romania, in un orfanotrofio e l’ha abbandonato per lavorare qui e mantenerlo. Io non voglio sapere altro, voglio solo lavorare a una Costituzione che difenda i diritti di questa signora”. A quel punto mi hanno tolto l’audio. Qualcuno mi ha riferito il giorno dopo che avevo detto anche cose durissime sul dibattito politico in corso: che mi vergognavo di aver sostenuto la mia posizione contro la posizione degli altri, che il dibattito sulla riforma era truccato, che ciascuno di noi doveva fermarsi e avere il coraggio di ricominciare daccapo, che non si poteva dire un sì o un no, che avevamo perso la testa e che nessuno riusciva più a seguirci. E che ho cominciato a ripetere come in una filastrocca. Sì sì si no no no e ridevo meglio sghignazzavo, dicendo ma che senso ha? La Costituzione in questa discussione non c’entra nulla, e noi, facendo così, non c’entriamo nulla con essa, non sappiamo chi siamo, abbiamo perso la rotta, siamo barchette in mezzo a un mare, e qui mi sono fermato. Un attimo di pausa e poi ho detto: un mare di merda. Io però non me lo ricordo.

Ecco la mia notte. Ora fortunatamente mi sono ripreso la mia vita. Sono tornato in Parlamento, il mio scranno, il mio pulsante, i miei luoghi, sono di nuovo io. Domani riprenderò il dibattito, questa volta in piazza, alle 17, pioggia vento sole non importa, io ci sarò per difendere le mie ragioni e quelle di tanti cittadini. Una notte sbagliata non può rovinare tutto. Il mio ruolo è qui accanto a voi tutti, io sono io, io sono voi. E basta, ciao amici tutti, ciao elettori. Viva la democrazia viva la verità viva la Costituzione.

Lorenzo Fazio Preve
(co-fondatore della casa editrice Chiarelettere)


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