Da qualche anno si discorre di una certa “resilienza” dell’analogico: i Record Store Day e la rinnovata vitalità del vinile, la riscoperta delle “compilation su musicassetta” come totem testimoniale e concentrato identitario, il profumo dei libri di carta e altro ancora… Su ilLibraio.it la riflessione “filosofica” di Fabrizio Cocco

Da qualche anno, ormai, si discorre e si discute di una certa “resilienza” dell’analogico: i Record Store Day e la rinnovata vitalità del vinile; la riscoperta delle “compilation su musicassetta” come totem testimoniale e concentrato identitario; il profumo dei libri di carta; e altro ancora.

Dei miei studi di filosofia (e della mia formazione in fenomenologia) ricordo ancora, nonostante gli oltre vent’anni trascorsi, giusto i rudimenti del concetto husserliano di epoché.  Un concetto che istintivamente (e probabilmente in maniera assai poco accurata e fedele, non me ne vogliano i “veri” filosofi, ma del resto ciascuno di noi deve soggiacere agli inganni narrativi della memoria) associo, prendendo quasi letteralmente l’idea della “messa fra parentesi”, a una sorta di metodo utile, nel suo rigore, alla disamina dell’esistente. Puntando perciò ben più in basso rispetto alle ambizioni eidetiche di Husserl, cerco di affrontare molte questioni rilevanti facendo, come prima mossa, quella di “mettere tra parentesi”.

Di fronte al fenomeno del ritorno dell’analogico e all’analogico, ovviamente per questioni anagrafiche la prima cosa da mettere tra parentesi è la nostalgia. E per chi si occupa di libri, non è cosa facile. La nostalgia attiene alla tinteggiatura emotiva dei ricordi, senza i quali (e senza le “menzogne” della memoria) in fondo forse non esisterebbe narrazione.

La seconda cosa da mettere tra parentesi è l’implicita e immanente dicotomia quando si parla di analogico: perché oggi è inevitabile parlarne in contrapposizione (spesso ostile) con il digitale. Tuttavia, proprio perché è un dato di fatto, una specie di precomprensione, è in fondo irrilevante.

Ciò che mi interessa dell’analogico, dunque, è in particolare l’aspetto meramente esperienziale. Sulle prime ero tentato di scrivere “materiale”, a dirla tutta. Ma non sarebbe corretto dare l’idea che il “materiale” analogico si contrapponga (vedi dicotomia di cui sopra) a un presunto “immateriale” del digitale. Il digitale è materiale. La nostra autorappresentazione sui social è materiale. I post di insulti alle persone celebri o meno, il bullismo on line, gli spacciatori di bufale e chi, cascandoci, le condivide e le diffonde… Tutto ciò è materiale. E lo è perché ha delle conseguenze.

Se c’è invece una qualità fenomenica dell’analogico che spicca è, o così mi sembra, il suo carattere intrinsecamente impositivo. Uno strumento analogico (un disco in vinile e un giradischi; un libro di carta) per sua stessa natura e intenzionalità, infatti, impone e richiede dei gesti che ne guidano la fruizione.

Nokia 3310

E – ciò che conta forse ancor di più, visto che anche un cellulare o un computer richiedono gestualità – è che questi gesti richiedono del tempo. Ma un tempo che ha una coloritura sua propria. Oggi, diremmo che richiedono “pazienza”, perché da un mero punto di vista fenomenico il digitale tende a disabituare al tempo e alla sua gestione, al suo impiego scientemente elettivo. Internet ha una vocazione al “tutto in contemporanea, tutto insieme” che richiede al soggetto, in modo esperienzialmente più “debole” ma intellettivamente più sfidante, una gestione del tutto diversa del tempo.

Forse, il fascino riemergente dell’analogico è che la sua stessa materialità detta i tempi. E, in questo, a me personalmente ricorda (maledizione, ma non l’avevo messa tra parentesi questa benedetta nostalgia?) un’altra cosa che ha tempi suoi, un “codice sorgente” che forse è addomesticabile, ma mai domabile. Questa cosa è la natura. Ma forse mi ricordo male anch’essa?

nota: l’autore è editor della Longanesi

 

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