Su ilLibraio.it il commento di Lorenzo Cavalieri, in libreria con “Il lavoro non è un posto”, che prende spunto da “Quo vado”, l’ultimo film di Checco Zalone (che sta trionfando al botteghino) per parlare dei problemi dell’economia, di (dis)occupazione e reddito di cittadinanza…

Il nuovo film di Checco Zalone è diventato un fenomeno sociale. Gli italiani (più o meno consapevoli) hanno riso a crepapelle di se stessi, di quel meraviglioso mondo di sicurezze e piccoli grandi privilegi che è stato il mondo del posto di lavoro fisso.

Per chi si occupa di lavoro il film di Zalone è una miniera d’oro (il pezzo in cui Zalone spiega agli indigeni cos’è la tredicesima passerà alla storia del cinema comico italiano).

Uno scambio di battute è illuminante: Zalone, innamorato della civilissima Norvegia dice al padre –“Qui se non lavori lo stato ti paga”- e il padre gli risponde a bruciapelo – “Perché noi in Italia non facciamo lo stesso?”

Di fronte a questo dialogo, dopo aver smesso di ridere, gli spettatori trovano due riflessioni amare:

  • Tanto lavoro nel settore pubblico (ma non solo nel pubblico) non era necessario dal punto di vista produttivo /funzionale. In termini strettamente economici  si poteva fare a meno di tanti contratti di lavoro. Per essere ancora più brutali tanti contratti di lavoro erano sostanzialmente un mix di ammortizzatore sociale (“non c’è da fare molto in questa mansione, l’importante però è che tu abbia uno stipendio”) e stimolo economico keynesiano (senza stipendi gli italiani come possono comprare i prodotti delle imprese italiane?).
  • In una società iper competitiva e iper avanzata tecnologicamente è possibile che ci sia sempre meno spazio per il lavoro. O meglio che ci sia spazio solo per i lavoretti da un lato (i sociologi americani hanno coniato la definizione di Gig economy, economia dei lavoretti), e per poco (in termini di numero di persone impegnate) lavoro di qualità dall’altro. Statistici ed economisti purtroppo cominciano a confermarci questa polarizzazione del mercato del lavoro: da un lato chi soffre di precarietà, dall’altro chi si afferma e sta bene, in mezzo una terra di nessuno sempre meno abitata.

Soprattutto emerge una domanda di fondo che dovrebbe interrogare profondamente la politica: Meglio avere un economia iper efficiente che produce strutturalmente poco lavoro e ricompensa i non lavoratori con il reddito di cittadinanza o avere una società meno efficiente e produttiva, con lavoratori perfettamente consapevoli di essere “non indispensabili”, ma pur tuttavia orgogliosi del loro dignitoso stipendio, delle loro sacrosante ferie, del loro meritato scatto di anzianità, della loro sudata tredicesima?

Non è una domanda retorica

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