“È un libro amorale, Huckleberry Finn, e in questo sta l’aspetto più profondo del suo fascino. Non è un romanzo di formazione, e nemmeno il suo contrario…”. La scrittrice Ilaria Gaspari ha riletto per ilLibraio.it il romanzo di Mark Twain, “seguito” delle avventure di Tom Sawyer: “La differenza forse più lampante fra Tom Sawyer e Huckleberry Finn, fra il libro che a nove anni mi appariva pieno di sole e quello che era buio di tenebre, è, a pensarci ora, nel rapporto dei due ragazzi con la morte e i suoi rituali…”

Huck il selvaggio

La prima volta che ho letto Le avventure di Huckleberry Finn è stato in due giorni e due notti. Avevo forse otto o nove anni, e probabilmente ancora non era stato scoperto il trucchetto con cui ogni tanto mi facevo venire a prendere a scuola fingendo di avere la febbre, solo per potermene stare nel letto grande a leggere e a mangiare quello che è rimasto il mio piatto preferito, il riso in bianco che mi faceva la mamma per farmi stare meglio – riuscendoci spesso con un successo straordinario, dato che la maggior parte delle volte in realtà stavo già benissimo e volevo solo starmene in pace e farmi curare. Ricordo una lettura ininterrotta. Avevo posato il libro soltanto dopo averlo finito, e poi avevo desiderato solo di iniziare Tom Sawyer, di cui Huckleberry Finn in realtà è il seguito – ma, chissà perché, mi avevano regalato prima quello e così l’ordine era stato inevitabilmente invertito, e comunque non importava. Perché in quel libro, letto febbrilmente nel lettone e poi continuato la notte con la lampadina clandestina che ho appuntato alle pagine di molti libri, avevo incontrato il primo dei miei scrittori preferiti. Mark Twain, per me, è ancora il genio più simpatico del mondo – e l’ho conosciuto nel suo libro più bello, di cui allora mi sfuggivano molte cose, ma anche questo non importava. Il massimo di ribellione che potessi concepire, quando ho letto per la prima volta Huckleberry Finn, era marinare la scuola fingendo di avere la febbre, quando riuscivo a essere credibile e non combinavo pasticci con il termometro a mercurio sotto la lampada; rubare un giorno alla solita vita e passarlo a leggere avventure lontane. E Huckleberry Finn era, allora, il libro dell’avventura vera, nel suo senso più radicale e più puro. Anche Tom Sawyer, che lessi dopo, è una storia di avventure.

Huck, però, era diverso.

Per me bambina, Tom Sawyer – storia di un enfant terrible che irride le regole e il puritanesimo della soffocante società in cui vive inventandosi avventure letterarie e libresche – era pieno di sole. La staccionata bianca della zia Polly, di cui Tom con uno stratagemma da piccolo capitalista cinico riesce ad appaltare la pittura ad altri bambini, rifulgeva di vernice fresca non solo sulla copertina, ma in tutte le pagine del libro. Un libro luminoso e straordinariamente spassoso, Tom Sawyer, che leggevo sorridendo a ogni riga. Qualche volta scoppiavo proprio in una risata di quelle sonore, perché c’erano dei passaggi che non si potevano leggere senza ridere.

Huckleberry Finn, nella mia testa, invece era blu. Era un libro notturno, scuro e denso come il buio sul Mississippi, che avvolge le sue avventure; un libro da leggere di corsa, in un fervore febbrile, con il fiato sospeso perché le avventure che raccontava sapevano essere oscure e spietate, e farti ridere in un modo diverso da quelle di Tom Sawyer: farti ridere di vero spaesamento e non di solo spasso.

Huck è una creatura notturna, e non solo perché è un fuggiasco che si fa avvolgere dalla notte per scomparire, non solo perché il suo viaggio lungo il fiume si svolge tutto nell’oscurità, a malapena rischiarato dalla luna e dalle stelle e da una fiaccola di fortuna. Huck è una creatura notturna perché appartiene a un mondo diametralmente opposto a quello dell’operosità borghese, delle leggi e dell’efficienza; il suo è un mondo ancestrale, dove la natura è potente e il fiume impetuoso non si lascia governare. Come Robinson Crusoe incontra Venerdì, Huck si imbatte, su un’isola disabitata, nello schiavo Jim, scuro come la notte sul fiume e tutto preso da pensieri e credenze magiche cui Huck si affida, e che regolano e spiegano la vita e le avventure lungo il fiume di questa strana coppia di fuggiaschi. Perché a differenza di Robinson Crusoe, Huck non cerca di ricostruire le strutture della vita borghese nella natura selvaggi. Si affida invece, insieme a Jim, proprio alla natura e al più selvaggio dei suoi poteri, quello che sconfina nella magia, per sopravvivere, per continuare il viaggio; per vivere.

La differenza forse più lampante fra Tom Sawyer e Huckleberry Finn, fra il libro che a nove anni mi appariva pieno di sole e quello che era buio di tenebre, è, a pensarci ora, nel rapporto dei due ragazzi con la morte e i suoi rituali: e quindi, di riflesso, con la civiltà stessa. Tom Sawyer, dopo la sua fuga, sceglie di tornare in città riapparendo al suo stesso funerale, e la beffa con cui sfida il paradosso di essere spettatore della propria scomparsa è anche l’azione che lo riammette alla vita sociale, di cui sfrutta la liturgia per sentirsi accolto e perdonato delle sue marachelle. Huck Finn, invece, mette in scena la propria morte, come una sorta di sacrificio rituale, per poter scomparire; e questa finta morte segna l’inizio del suo viaggio, della sua avventura lungo il fiume. È una differenza sostanziale; il rito di passaggio capovolge il suo senso e diventa, per Huck, il mezzo per uscire dal mondo della scuola, delle preghiere, della bontà imposta da vedove, giudici e signorine, figure zitellesche, avide e puritane che pretendono di insegnargli a vivere – e cominciare a vivere davvero.

Tom è il furbo, il malizioso; è il ragazzino capace di far tornare sempre le cose a suo vantaggio, di costruirsi e inventarsi una vita sfruttando le piccole falle nel sistema che regola il vivere sociale. Huck agisce al di fuori delle regole: non le aggira, lui le ignora, le trascende. Ogni volta che ne infrange una, la sta contemporaneamente capovolgendo, e solo per seguire la sua natura – che non ha nessun costrutto sociale, ma anzi si esprime proprio in quello stare fuori dal mondo degli uomini, ed essere, però, più uomo di qualunque altro uomo, pur nella completa inconsapevolezza delle leggi sociali che caratterizza il suo stato di ragazzo selvatico. Tom è un monello; Huck, un selvaggio. Un vero selvaggio, che si situa al di fuori della morale, che ne prescinde completamente e grazie a questo effetto di straniamento riesce a sopravvivere e a vivere davvero – senza la pretesa di crescere, migliorare o imparare, ma come se la vita fosse solo un momento, un lungo momento di libertà, come se non ci fosse niente da vincere o da perdere se non l’essere avvolti dalla natura – soltanto lungo il fiume.

La storia, la grande storia degli uomini, è una farsa, lungo il fiume, eppure preme da tutte le parti. I due furfanti che si uniscono a Huck e Jim lungo la corsa giù per il fiume si presentano come il Delfino perduto di Francia e un Duca inglese, che recita strani monologhi shakespeariani quasi dadaisti, in cui i versi più famosi e citati delle opere più disparate si fondono in spirali improbabili che Huck, affascinato, impara a memoria. Sono due ciarlatani, disonesti, violenti; perché anche lungo il fiume la violenza è ovunque, ci sono briganti che si macchiano di crimini orrendi pur di spartirsi un bottino, navi abbandonate che vanno alla deriva, una lotta all’ultimo sangue per sopravvivere, una caccia spietata allo schiavo Jim, una faida insensata fra famiglie di possidenti. Eppure, tutta questa violenza si stempera nello sguardo disincantato di Huck, che non sa, non può e non desidera giudicare, che non cerca un senso dove istintivamente sente che non lo si può trovare; che si appiglia alle credenze magiche di Jim, e nell’ambiente uterino e minaccioso insieme del fiume, senza dover ricorrere allo sberleffo criminale del Re e del Duca impostori, annienta la crudeltà della storia ignorandola semplicemente.

È un libro amorale, Huckleberry Finn, e in questo sta l’aspetto più profondo del suo fascino. Non è un romanzo di formazione, e nemmeno il suo contrario. È la storia di una fuga lungo un fiume, e finisce male, in un certo senso: perché non c’è redenzione, perché Huck torna, nel finale, a dover indossare di nuovo gli odiati abiti da ragazzo civilizzato, e peggio ancora, a dover andare a scuola.

E in fondo quello che capisco ora e non capivo allora, quando ho amato Huck per la prima volta, sta tutto quanto nell’avvertenza che precede l’inizio, e che da bambina dovevo aver proprio saltato a pié pari – ma allora potevo anche saltarla, perché non era affatto necessaria, quando avevo marinato la scuola e letto il libro ininterrottamente per due giorni. “Coloro che cercheranno di trovare uno scopo in questa narrazione saranno processati; coloro che cercheranno di trovarvi una morale saranno banditi; coloro che cercheranno di trovarvi una trama saranno fucilati.”

Mark Twain ci aveva avvertiti.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, classe ’86, si è diplomata in Filosofia proprio alla Scuola Normale di Pisa ed è al debutto nel romanzo per Voland con “Etica dell’Acquario”. Abita e lavora a Parigi, dove sta scrivendo una tesi di dottorato.

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