La scrittrice Ilaria Gaspari ha riletto per ilLibraio.it “Gli Sporcelli”, libro amatissimo di Roald Dahl, e ha ritrovato la sensazione che provò nell’estate fra la seconda e la terza elementare, al suo primo incontro con “il disgusto letterario”: “Quello che rende irresistibile la crudeltà dei tiri mancini tra i personaggi è il fatto che non hanno altro fine che quello di farsi un dispetto…”

La barba del signor Sporcelli era la cosa più disgustosa di cui avessi letto in un libro; almeno, così era nell’estate del ’94, quando mi regalarono il piccolo Salani color crema che andò ad aggiungersi alla mia collezione di libri di Roald Dahl e si infilò difilato nella lista dei miei preferiti, fra Le streghe e il GGG. E a rileggere Gli Sporcelli oggi, che di scene e immagini disgustose ne ho scovate parecchie e in parecchi libri, la cosa più bella è che ritrovo – come se fosse rimasta impigliata nelle pagine, appiccicata alle illustrazioni irresistibili di Quentin Blake proprio come le briciole delle patatine alla barba del signor Sporcelli – la sensazione che provai allora, nell’estate fra la seconda e la terza elementare, al mio primo incontro con il disgusto letterario: un’allegria esagerata e un po’ sopra le righe. Rido mentre aspetto un autobus che non passa, sotto il sole dell’estate di Roma, rido come una matta mentre le signore protestano per il ritardo e telefonano all’Atac.

Quella barba me la ricordavo come se l’avessi letto ieri, Gli Sporcelli. E il bello è che fa ridere ancora. Al tempo in cui ho letto Gli Sporcelli per la prima volta, la mia sera preferita dell’anno portava l’evocativo nome di Cena delle Porcherie; era una tradizione familiare poi allargata agli amici del mare. Siccome eravamo bambini beneducati e a tavola venivamo regolarmente sgridati se non masticavamo con la bocca chiusa o se rovesciavamo qualcosa sulla tovaglia, per una sera all’anno, come in un Carnevale estivo, eravamo liberi di mangiare come ci pareva. Stavamo nel prato e avevamo una tovaglia di plastica, come una coperta da pic-nic. Si poteva mangiare con la testa nel piatto o lanciando il budino. Facendo le bolle nel bicchiere. Aspirando gli spaghetti come Lilli e il Vagabondo. Macchiandosi i vestiti, i capelli, la faccia, perché era la Cena delle Porcherie e tutto si poteva fare. Sono passati parecchi anni dalla mia ultima Cena delle Porcherie, eppure rileggendo Gli Sporcelli – soprattutto le descrizioni della bruttezza bitorzoluta dei due cattivissimi coniugi che passano il tempo a tramare scherzi l’uno contro l’altra – ritrovo quel senso anarchico di libertà che ogni estate, per una sera, si confondeva con la pratica effettivamente piuttosto disgustosa della Cena delle Porcherie.


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Certo, come la Cena delle Porcherie arrivava solo una volta all’anno, e spalancava una voragine di libertà assoluta in una serie infinita di cene in cui bisognava stare composti, anche le parti più spensieratamente disgustose degli Sporcelli, quelle più spassose, sono incastonate in una trama piuttosto esile, a rileggerla oggi, e che risponde a un sistema morale rigido e dicotomico. Come sempre nei libri di Roald Dahl, i cattivi vengono puniti, i buoni trionfano di una vendetta da giustizieri: l’ordine deve essere ristabilito con una rigidità un po’ ottocentesca. Ma sono molto meno interessanti, i buoni, nonostante i nomi che ancora mi fanno sorridere – il capofamiglia delle scimmie Capopò, il meraviglioso uccello Rococò – rispetto ai due deformi, cavernosi, perfidi Sporcelli, che sono sposati da anni e anni e non possono fare a meno l’uno dell’altra, perché si divertono troppo a giocarsi continuamente scherzi atroci e ingegnosi. Il signor Sporcelli, con raffinata crudeltà, allunga il bastone della moglie, un pezzettino ogni notte, fino a convincerla di soffrire di una tremenda malattia che la fa rimpicciolire, la restringite; la signora Sporcelli, per mostrare al marito che non lo perde mai di vista, caccia il suo occhio di vetro nel boccale di birra di lui, spaventandolo a morte. La vendetta delle scimmie e dell’uccello Rococò, che incollano tutti i mobili della casa al soffitto per costringere i malvagi Sporcelli a rimanere per sempre a testa in giù, per quanto raffinata, è molto meno divertente degli scherzi del marito alla moglie e della moglie al marito. Perché quello che rende irresistibile la crudeltà di quei tiri mancini è il fatto che non hanno altro fine che quello di farsi un dispetto; sono meravigliosamente illogici, non fanno parte di un piano di vendetta ben architettato. Sono demenziali e inutili, e spesso disgustosi, mentre la vendetta delle scimmie serve a riportare l’ordine annientando i due anarchici Sporcelli.

Ma è proprio questo contrasto a rendere così spassosi i momenti in cui si squaderna la descrizione sregolata dei due mostruosi protagonisti, l’assurdità quasi kafkiana dei tiri mancini che si giocano a vicenda; i momenti in cui si scatena la logica del disgustoso, la più proibita e la più censurata nell’educazione tradizionale di un bambino.

Ora, però, ho una cosa da fare. Devo organizzare la Cena delle Porcherie.

L’AUTRICE* – Ilaria Gaspari (nella foto), classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa ed è al debutto nel romanzo per Voland con Etica dell’Acquario. Abita e lavora a Parigi, dove sta scrivendo una tesi di dottorato. Qui tutti i suoi articoli pubblicati da ilLibraio.it

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