Dopo “Qualcosa su Lehman” di Stefano Massini, secondo al Campiello, ecco “Pacific Palisades” di Dario Voltolini: su ilLibraio.it Mario Baudino racconta l’evoluzione dei romanzi in versi; ricordando, tra gli altri, “La ragazza Carla” di Elio Pagliarani e “Perciò veniamo bene nelle fotografie” di Francesco Targhetta

C’è una donna che va al bar, e ci va sicuramente troppo spesso perché la sua sete “era travolgente/ solo pallidamente estinta dalle bevande/ solo parzialmente assopita dall’alcol”, una sete “come il volo del falco/ che cerca la preda”; è c’è Torino, con le sue periferie, i casermoni, i semafori sempre rispettati, la vita piccolo borghese ad onta di tutto, la “babelica immensa fabbrica” che non si sa più come raccontare, le vicende di famiglia, il dolore che non trova pronuncia e un orizzonte lontano, Pacific palisades in America ma anche l’idea di palizzate pacifiche da piantare dove capita, magari a Kyoto, a un certo punto della vita. Dario Voltolini scrive una narrazione in versi (Pacific Palisades, Einaudi) tra memoria e strazio, tra geografia e sentimento – diremmo ungarettianamente del tempo – con un incipit formidabile che apre spazi indefiniti proprio mentre li delimita: “Il 2 giugno del 2015, Festa della Repubblica Italiana e giorno in cui,/ nel 1932, nacque mio padre,/ piazza Pitagora, a Torino, dopo il tramonto,/ era satura del profumo dei tigli./ C’era una luna bella grassa in cielo,/ ma gli angoli della piazza, il bar, i muri dei palazzi/ erano bui”.

dario voltolini

Non si tratta, come si intuisce a prima lettura, di versi in senso proprio (e magari tradizionali), non versi liberi almeno non nel senso che contengono in sé la loro dimensione e la loro necessità, ma un andare a capo seguendo il ritmo della voce, del respiro. La differenza potrebbe apparire tutto sommato irrilevante; non lo è visto che siamo non nei territori abituali della poesia quanto piuttosto in quelli attinenti o quantomeno confinanti col romanzo, genere peraltro in grado di incorporare in sé, già di vocazione, tutte le altre scritture.  E se ha un senso cercare una specificità nella narrazione – romanzesca – in versi, ecco che il libro di Voltolini ce lo ripropone con dolce fermezza, ricordandoci che una tradizione senz’altro minoritaria e forse un pochino lunatica, nella nostra letteratura, si è riaffacciata ancora una volta sulle scena con la grazia che le appartiene.

Nel volgere di un anno questo è il secondo “romanzo in versi”, dopo Qualcosa su Lehman di Stefano Massini (Mondadori) che ha fatto un’inattesa incetta di voti “popolari” all’ultimo Campiello, unico libro in grado di opporre qualche resistenza al dilagante successo del nuovo genere Ferrante-fever in cui si inscrive, pur con qualche merito, L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio.

Sarà da notare come, non troppo curiosamente, entrambi abbiano una provenienza o una destinazione teatrale, quello di Massini come regesto d’una trilogia di Ronconi scritta dallo stesso autore, questo di Voltolini come base testuale del recital interpretato da Alessandro Baricco e andato in scena al Macro di Roma con musiche di Nicola Tescari, dal 12 al 22 ottobre scorso. La narrazione in versi, che non è una semplice forzatura di genere, ha una sua caratteristica evidente: a differenza della poesia che pure in molte esperienze evidenzia sempre più il suo essere ormai vicinissima alla prosa, seguendo il lontano vaticinio di Eugenio Montale (nel ’64 osservava come, “mentre la poesia si avvicina alla prosa, il romanzo tenta di liberarsi delle sue impalcature e aspira alla condizione di prosaicissima poesia”), resta per certi aspetti lontanissima dal romanzo, e non è compiutamente tale se non viene recitata, se non è letta ad alta voce.

stefano massini

Ciò vale probabilmente anche per il primo misterioso oggetto letterario della serie storica, l’Evgenij Onegin di Puškin (pubblicato nel 1833). In quel caso inaugurale c’era però una forte componente ironica e persino parodica nei confronti del genere epico, come è evidente ad esempio nel proemio al capitolo ottavo, che ricorda semmai Cervantes: “Canto il mio giovane amico e tante sue stramberie. Benedici, o epica musa, la mia lunga fatica! E dammi un sicuro bordone, perché io non vagabondi senza senso, perché non vada fuori strada”.

Qui, nella nostra tarda modernità, l’ironia non sembra più aver luogo, per lasciare il campo semmai a una lirica intenzionalmente depotenziata (ma non del tutto, almeno in Voltolini che sa giocare molto bene di contrasti e sorprese stilistiche): basti pensare alle narrazioni in versi di Elio Pagliarani (soprattutto La ragazza Carla, e siamo come data di pubblicazione in volume nel ’64 – ora riproposto dal Saggiatore), alla Camera da letto di Attilio Bertolucci, ai Romanzi naturali di Giorgio Cesarano e al più recente Perciò veniamo bene nelle fotografie di Francesco Targhetta (pubblicato per Isbn nel 2012). Si è parlato di narrazioni in versi anche in altri casi, ma quasi sempre – si pensi a Maurizio Cucchi o ad Ascoltando Marilyn di Tiziano Broggiato, nella raccolta Preparazione alla pioggia (Italic Pequod) – proposte da scrittori che avevano ed hanno un’identità consolidata piuttosto di poeti che di narratori.

Francesco Targhetta

Ma se questa situazione, questa migrazione prosodica è stata descritta una volta per tutte da Montale, va detto che Massini e Voltolini già hanno una sonorità diversa, e per molti aspetti “nuova” anche rispetto al monologo interiore di Targhetta, più vicini semmai all’Edoardo Albinati di La comunione dei beni (romanzo in versi del ‘95 appena ristampato da Aragno) dove appunto l’intreccio, senza del quale, anche a un livello minimo, non si può parlare di romanzo, e neppure a maggior ragione di romanzo in versi, è sì celato ma fortemente sostenuto dalla memoria, è anzitutto memoria. Della stessa memoria strutturante si tratta in Pacific Palisades, che la spinge all’estremo, fuori del soggetto lirico o narrativo: “Dentro di noi c’è un punto/ e da questo punto escono dei venti e dei profumi e delle cose»; e tuttavia: «Quand’ero piccolo, quand’ero uccello, quand’ero lemure/…/ tutto questo silente polmone dell’aria eravamo – siamo?”. Il punto, ecco il punto, è interrogativo. Né potrebbe essere altrimenti.

 

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