Michele vuole stare solo, con l’unica compagnia degli oggetti smarriti che vengono trovati ogni giorno nell’unico treno che passa da Miniera di Mare. Perché gli oggetti non se ne vanno, mantengono le promesse, non ti abbandonano. Finché un giorno, sullo stesso treno che aveva portato via sua madre, incastrato tra due sedili, Michele ritrova il suo diario… – Un estratto dall’esordio narrativo dello sceneggiatore Salvatore Basile

Salvatore Basile, sceneggiatore di fiction di successo, esordisce come romanziere con Lo strano viaggio di un oggetto smarrito (Garzanti). Il libro racconta la storia di un ragazzo che ha dimenticato cosa significa essere amati, la storia di una ragazza che ha fatto un patto della felicità, nonostante il dolore, la storia di due anime che riescono a colorarsi a vicenda per affrontare la vita senza arrendersi mai.

Il mare è agitato e le bandiere rosse sventolano sulla spiaggia. Il piccolo Michele ha corso a perdifiato per tornare presto a casa dopo la scuola, ma quando apre la porta della sua casa nella piccola stazione di Miniera di Mare, trova sua madre di fronte a una valigia aperta. Fra le mani tiene il diario segreto di Michele, un quaderno rosso con la copertina un po’ ammaccata. Con gli occhi pieni di tristezza la donna chiede a suo figlio di poter tenere quel diario, lo ripone nella valigia, ma promette di restituirlo. Poi, sale sul treno in partenza sulla banchina.

Sono passati vent’anni da allora. Michele vive ancora nella piccola casa dentro la stazione ferroviaria. Addosso, la divisa di capostazione di suo padre. Negli occhi, una tristezza assoluta, profonda e lontana. Perché sua madre non è mai più tornata. Michele vuole stare solo, con l’unica compagnia degli oggetti smarriti che vengono trovati ogni giorno nell’unico treno che passa da Miniera di Mare. Perché gli oggetti non se ne vanno, mantengono le promesse, non ti abbandonano.
Finché un giorno, sullo stesso treno che aveva portato via sua madre, incastrato tra due sedili, Michele ritrova il suo diario. Non sa come sia possibile, ma Michele sente che è sua madre che l’ha lasciato lì. Per lui. E c’è solo una persona che può aiutarlo: Elena, una ragazza folle e imprevedibile come la vita, che lo spinge a salire su quel treno e ad andare a cercare la verità. E, forse, anche una cura per il suo cuore smarrito.

Basile - foto

Salvatore Basile, è nato a Napoli e vive a Roma, dove fa lo sceneggiatore e regista. Ha scritto e ideato molte fiction di successo. Dal 2005 insegna scrittura per la fiction e il cinema presso l’Alta Scuola in Media Comunicazione e Spettacolo dell’Università Cattolica di Milano.

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un breve estratto del romanzo:

«Mamma…»

La donna si volta, sorpresa.

«Michele…»

Il bambino sorride. Ha la cartella a tracolla e un leggero affanno.

«Siamo usciti un’ora prima, la maestra non si sentiva bene…»

La donna annuisce, evita il suo sguardo.

Il bambino le si avvicina, vorrebbe dirle che ha corso a perdifiato per tornare subito a casa e che ha visto il mare agitato con le bandiere rosse del pericolo che svolazzavano nel vento, anche se è novembre e sulla spiaggia non c’era nessuno.

Invece vede il Quaderno Rosso tra le mani di sua madre.

«Mica ti metti a leggere cosa c’è scritto? Quello è il mio diario segreto…»

«Lo so, non ti preoccupare.»

La donna fa per restituire il quaderno, ma poi frena il gesto.

«Se ti prometto che non lo leggo, me lo fai tenere?»

Michele non capisce: se non lo legge, che se lo tiene a fare? Però sa che quando non hai ancora sette anni ci sono un sacco di cose che i grandi capiscono e tu ancora no.

«Però poi me lo ridai?»

La donna annuisce appena.

«Me lo prometti?»

Lei esita.

«Me lo prometti?» insiste il bambino.

«Te lo prometto.»

La donna infila il quaderno rosso nella valigia e la chiude. Solo allora Michele nota il bagaglio.

«Che fai, parti? E dove vai?»

Non ha risposto.

O forse la sua voce è stata coperta dallo sferragliare di un treno in arrivo. Michele è abituato a quel rumore metallico e ritmato, a quel vento caldo e improvviso che, spinto dalla locomotiva in frenata, invade le stanze se le finestre sono aperte, alla strana sensazione che il treno possa entrare direttamente in cucina e fermarsi nel corridoio, con i passeggeri che scendono frettolosi e magari ti rubano i giocattoli se stai dormendo.

La donna afferra la valigia e il suo profilo si disegna, ancora una volta, davanti agli occhi del bambino. Il naso sottile, leggermente rivolto all’insù, gli occhi come due pozze di petrolio, le onde dei capelli castani, l’essenza di ciliegia delle labbra, tutto si immerge nella penombra delle serrande abbassate, mentre si avvia verso l’uscita.

«Quando torni, mamma?»

Lei inspira con forza, divora l’aria che le invade i polmoni fino a far schizzare via ogni debolezza, ogni rimpianto. I rimorsi no. I rimorsi sa che dovrà portarli dentro, come un bagaglio che non potrà mai essere disfatto, né andrà mai a deposito.

«Torno… appena posso», sussurra.

Poi varca la soglia e la luce del sole la investe.

Michele la segue.

È salita sul treno.

Il bambino non la perde di vista, con la cartella ancora a tracolla la pedina con gli occhi e con i passi lungo la banchina dell’unico binario, mentre lei attraversa i vagoni in cerca di un posto a sedere.

Poi vede suo padre, nella sua divisa da capostazione, mentre porta il fischietto alla bocca per spingere il treno lontano.

Perché lui e la mamma non si sono salutati? Perché papà ora fischia? Non lo sa che poi il treno va via e che sul treno c’è la mamma?

 1.

Erano tutti acquattati nella penombra della stanza. Il treno interregionale delle 19.45, proveniente da Piana Aquilana, afferrava l’ultima sera di novembre ed entrava nella stazione di Miniera di Mare in perfetto orario.

Silenziosi, immobili, attendevano nel silenzio appena rotto dallo sbuffare della locomotiva e dal cigolio metallico dei freni che serravano le rotaie. Rimasero fermi al loro posto anche quando le assi di legno del pavimento sussultarono, scosse dalla frenata finale e dal soffio potente e definitivo del motore che sprofondava nel riposo.

Più tardi, la porta del piccolo appartamento si sarebbe spalancata e l’uomo del treno avrebbe fatto il suo ingresso.

Come ogni sera.

Nel frattempo, i passeggeri scesero dai vagoni. Michele, fermo sulla banchina dell’unico binario, li guardò con attenzione mentre si allontanavano verso l’uscita, diretti alle loro case o chissà dove. Conosceva a memoria quell’aria «da arrivo» dei viaggiatori, quel guardarsi intorno come se scoprissero per la prima volta la vita, come se ogni rientro serale fosse una rinascita, un miracolo inaspettato.

Poi si avvicinò all’ultimo vagone e vide il suo volto riflesso nel vetro, contemplò i suoi trent’anni appena compiuti, i capelli castani che cominciavano appena a diradarsi sulle tempie, i suoi occhi neri come una pozza di petrolio. E la giacca da ferroviere che, da qualche mese, iniziava a stargli un po’ larga sui fianchi.

Michele trasse un sospiro di sollievo: finalmente il treno era tutto suo. Come ogni sera. Fino all’indomani.

Aprì l’ultimo sportello del vagone di coda e trattenne il fiato.

La prospettiva delle nove carrozze che si susseguivano in linea retta, una dopo l’altra, si spianò davanti al suo sguardo. Mosse il primo passo di quella lenta traversata serale che lo avrebbe condotto fino alla locomotiva e inspirò con forza.

C’era silenzio. E quel silenzio lo rassicurava. Nessuna voce, nessun volto. Né gli odori né gli avanzi di cibo, nulla di tutto ciò tratteneva in quei vagoni le persone che avevano occupato il treno. In quel silenzio rimaneva solo il riverbero delle loro vite misteriose. Nessuno l’avrebbe visto aggirarsi tra le carrozze, nessuno gli avrebbe rivolto domande, nessuno l’avrebbe messo in imbarazzo costringendolo a spiegare i perché della sua vita solitaria.

Michele cominciò a controllare che tutto fosse in ordine, tirò su i vetri dei finestrini rimasti aperti, ripulì i vagoni dai rifiuti, lucidò le maniglie cromate.

Quando raggiunse la locomotiva, all’estremità opposta del treno, vi entrò. Raccolse alcune carte dal pavimento, un paio di bicchieri di plastica che odoravano di vino, un cartoccio unto che profumava ancora di cibo da rosticceria.

Poi si voltò verso la coda del treno e cominciò il suo viaggio di ritorno verso l’ultimo vagone. Passare in rassegna i posti a sedere era la parte finale del suo lavoro, quella che amava di più. I sedili morbidi conservavano impresse le sagome dei passeggeri. Immerso nella sua solitudine poteva esaminarli, con calma.

Giunto al terzo vagone, sul lato sinistro, al posto 24, vide qualcosa. Si avvicinò, con una leggera emozione, come accadeva sempre in questi casi.

Era una piccola bambola, grande quanto una mano, di gomma spessa leggermente consumata, il volto paffuto su cui spiccavano due occhi blu, grandi come lune. Indossava un vestito di cotone grezzo, il fondo verde punteggiato di fiori bianchi e gialli: margherite e girasoli.

Michele la prese tra le mani e sorrise.

«Bentrovata», sussurrò alla bambola, e la infilò nella tasca della giacca.

Erano ancora fermi al loro posto quando, qualche minuto dopo, Michele spalancò la porta di casa.

«Scusate il ritardo…» sussurrò con aria stanca. Poi accese le luci e la stanza si illuminò. Si avviò verso il tavolo, al centro dell’ambiente, sfilò la piccola bambola dalla tasca.

«C’è un nuovo arrivo», disse, mostrando la bambola e accarezzando con lo sguardo tutti gli oggetti che riempivano il salotto, ordinati lungo le pareti su scaffali e tavolini. Oggetti smarriti sul treno, che Michele aveva ritrovato nel corso degli anni e che ormai facevano parte della sua vita: dozzine di ombrelli, bastoni, occhiali da sole e da vista, libri di ogni genere, berretti e cappelli, orologi da polso, accendini cromati, giubbotti, svariati capi di abbigliamento di varie taglie e tessuti allineati su alcuni appendiabiti, radioline a transistor, vecchie macchine fotografiche, un piccolo registratore, quattro mangianastri, due vecchie autoradio, un cellulare col display rotto, alcuni gomitoli di lana con i rispettivi ferri da maglia, sei cacciavite, un guantone da boxe, alcune borracce, un vecchio clarino, dozzine di armoniche a bocca, fionde e pistole giocattolo, un manubrio di bicicletta, zaini e vecchie valigie vuote.

Michele si avvicinò a uno scaffale e poggiò la bambola accanto ad altri giocattoli che erano lì da tempo: un orso di peluche, un piccolo Pinocchio di legno, un vecchio Batman di gomma a cui mancava un braccio, un robot di metallo.

Proprio in quell’istante, risuonò il din-don del piccolo orologio a pendolo. Michele si scosse, si voltò a guardare il quadrante. Erano le 20.30. L’ora della cena. Alle 22 in punto sarebbe andato a dormire, per poi svegliarsi alle 6.15 e farsi trovare pronto per la partenza del primo e unico treno. Aveva scandito la sua vita intorno ai ritmi della stazione ferroviaria di cui era l’unico custode, una vita legata alle partenze e ai ritorni dell’interregionale che, ogni giorno alle 7.15, lasciava alle sue spalle la stazione di Miniera di Mare e attraversava l’intera mattinata per arrivare a Piana Aquilana alle 12.45.

Michele era lì, a vederlo partire nella luce del mattino per poi accoglierlo al tramonto, d’estate, o nel buio della sera, d’inverno. Poi se ne prendeva cura. E tutto ciò lo faceva sentire al sicuro.

Si diresse verso la cucina. Aprì il frigorifero, prese due uova e un piatto che conteneva degli spinaci già lessati. Mise a bollire un po’ d’acqua sul fuoco, vi aggiunse mezzo dado di brodo vegetale.

Mentre osservava le uova rapprendersi lentamente, accadde l’imprevisto. Si preannunciò con un suono leggero ma insistente. Infine dall’esterno della casa risuonò una voce femminile.

«C’è nessuno? Per favore… C’è nessuno?»

A quel punto Michele sussultò: non era mai accaduto che qualcuno si avventurasse nella stazione a un’ora così tarda, né avrebbe mai ipotizzato che qualcuno potesse bussare alla sua porta di casa.

Ma intanto la voce femminile si faceva sempre più insistente e magari, a forza di battere contro il vetro, l’avrebbe rotto davvero.

«C’è qualcuno? Lo so che c’è qualcuno, le luci sono accese…» continuò la voce aumentando di volume.

Michele sospirò, calcolò in un ulteriore minuto e mezzo il tempo di cottura della stracciatella, calcolò che in pochi secondi sarebbe arrivato alla porta d’ingresso, avrebbe spiegato all’intrusa che il primo e unico treno in partenza dalla stazione era previsto per le 7.15 dell’indomani, le avrebbe gentilmente indicato l’uscita in direzione della biglietteria automatica e, alla fine, avrebbe avuto a disposizione ancora qualche secondo per spegnere il fuoco. E poi nulla gli avrebbe impedito di gustarsi la sua cena in santa pace. Solo. E quindi al sicuro.

Attraversando la stanza degli oggetti smarriti si diresse velocemente verso la porta, la aprì e si trovò di fronte una ragazza in tuta da ginnastica. Non superava i venticinque anni, aveva i capelli lunghi e neri raccolti in una coda di cavallo, gli occhi rotondi, di un grigio inusuale che, alla luce delle lampadine, emanavano piccoli bagliori verdi, il viso dai lineamenti regolari, senza un filo di trucco. Non molto alta: gli arrivava appena all’altezza del mento, anche se comunque Michele sfiorava il metro e ottanta. Non era particolarmente bella, ma aveva un sorriso disarmante.

«Ciao… cioè, buonasera. Io sono Ele. Che poi sarebbe Elena.» disse come se volesse scusarsi del suo stesso nome.

Michele tentò di anticipare qualunque altra cosa volesse aggiungere la ragazza.

«Non ci sono treni fino a domani alle sette e quindici», disse, «e…»

«Sì, lo so. Conosco gli orari del treno, visto che lo prendo ogni mattina», incalzò Elena, anticipandolo a sua volta.

Michele si sentì spiazzato. Aprì la bocca come a voler dire qualcosa, ma la ragazza lo anticipò di nuovo.

«Abbonata, terza carrozza, posto 24. Il fatto è che… cioè, forse tu mi puoi aiutare. Ho perso qualcosa sul treno, proprio oggi pomeriggio… e visto che questa è la stazione dell’ultima fermata, magari, mi chiedevo… insomma non è che qualcuno ha trovato una piccola bambola?»

Michele era sempre più allibito. In quasi dieci anni di lavoro, mai nessuno si era presentato in stazione a reclamare un oggetto smarrito. Si tratta quasi sempre oggetti di poco conto e comunque la gente di solito rinuncia a recuperarli, a meno che non siano di importanza fondamentale. E quella bambolina, tra l’altro consumata, non gli sembrava affatto un oggetto di importanza fondamentale.

«Allora? Sai qualcosa di Milù?» incalzò Elena.

«Milù?»

«Sì, la bambola… si chiama Milù.»

Michele esitò.

«Ehm… sì, forse ho trovato una bambola ma…»

Non riuscì a completare la frase. Elena lo abbracciò di slancio, urlando di gioia. Gli stampò un bacio su una guancia, prima che lui potesse rendersi conto di ciò che stava accadendo. Era il primo abbraccio che riceveva da quando sua madre era andata via. Il primo bacio che riceveva da quando aveva sette anni. E come se non bastasse, era la prima volta in assoluto che riceveva un abbraccio e un bacio da una donna che non fosse sua madre.

Rimase paralizzato. Elena se ne accorse e si ritrasse, pur continuando a sorridere come se il mondo fosse davvero qualcosa di assolutamente meraviglioso.

«Scusami… sono troppo espansiva, lo so. Me lo dicono tutti. Ma quando sono felice non riesco a frenarmi. È… come ti posso spiegare? Mi prende una scossa. Elettrica. Ecco.»

Michele la fissò, imbambolato.

«Oddio, non sai quanto sono contenta… E dov’è?»

«Eh?»

«Milù. Dov’è? Me la posso riprendere?»

Le fece cenno di attendere. «Vado un attimo a prenderla e procediamo col riconoscimento.»

E prima che Elena potesse replicare, le voltò le spalle e si diresse dentro casa.

Attraversò la stanza degli oggetti smarriti, raggiunse lo scaffale dei giocattoli, stava per prendere la piccola bambola quando sentì la voce di Elena alle sue spalle.

«Ommioddio!!!»

Michele si voltò di scatto, come un ladro colto sul fatto.

Elena era al centro del salotto e si guardava intorno, meravigliata.

«Ma questo è… l’Ufficio oggetti smarriti?»

“Esci immediatamente da casa mia”, avrebbe voluto dire Michele, ma scoprì che non aveva il fiato per articolare le parole. Da quando era morto suo padre, dopo il funerale, nessuno aveva messo più piede in quella casa ed erano passati ormai quasi undici anni. Capì, proprio in quel momento, di non essere più abituato ai rapporti umani. E, soprattutto, non era più abituato ad altre presenze che non fossero i suoi oggetti inanimati all’interno della casa. Quando era successo? Da quanto tempo la solitudine aveva preso il sopravvento sulla sua vita? Da quanto tempo il silenzio, i gesti solitari, l’assenza di altre vite che non fossero la sua erano diventati la sua condizione di sopravvivenza?

Elena, intanto, cominciò ad aggirarsi per la stanza, osservando tutti gli oggetti e parlando a raffica. «Ma è possibile che la gente dimentica tutte queste cose? E non torna a riprenderle? Guarda qua… non vedevo dei mangianastri da quando ero bambina… Le autoradio! Mi ricordo che mio padre ne aveva una così e ogni volta che parcheggiava la macchina la nascondeva sotto il sedile. Una volta hanno rotto il vetro e gliel’hanno fregata lo stesso.»

All’improvviso esclamò: «Milù!». E la prese tra le mani, pettinandole con le dita i capelli sintetici. «Meno male che l’ho ritrovata… Milù ci sarebbe rimasta malissimo. Cioè, ti spiego, Milù è mia sorella. Non è la bambola, anche se però pure lei si chiama Milù, la bambola. Cioè, mia sorella si chiama Milù e pure la bambola è Milù. Vabbé hai capito, no?»

Michele annuì, stremato. Le porse la mano, come a volerla congedare. Lei gliela strinse, entusiasta. Lo ringraziò ancora, poi assunse un’aria perplessa, annusò l’aria intorno.

«Michele, ma… non senti puzza di bruciato?»

Michele impallidì. Poi corse verso la cucina.

La stracciatella era un piccolo ammasso di carbone rinsecchito sul fondo del pentolino, immerso nel ricordo del brodo vegetale che si era trasformato in una nebbia nera densa di fumo. Michele afferrò i manici del pentolino, lo tolse dalla fiamma del fornello e si spostò verso il lavandino. Ma a metà strada si rese conto di quanto i manici scottassero. Masticò una bestemmia a mezza bocca e lanciò il tutto nel lavello. Poi sventolò le dita in aria, nel tentativo di raffreddarle.

«Ti sei fatto male?» chiese Elena, preoccupata, al centro della cucina.

Michele sospirò. Era evidente che quella ragazza non aveva la più pallida idea di cosa significasse entrare nelle stanze e nelle vite degli altri senza chiedere permesso.

«Non è niente», bofonchiò, «ora è meglio se vai e…»

«Fammi vedere.»

E prima che Michele riuscisse a replicare, Elena aveva già preso le sue mani e le osservava con aria attenta.

«Sì, ti sei scottato. Ustionato, se vogliamo essere precisi. Vedi questo dito? E quest’altro?»

Michele si ritrasse.

«Ora ci penso io, dammi le mani…» disse sorridendo, dolcissima.

Michele sentì un senso di vertigine. Abbandonò le sue mani tra quelle di Elena, mentre il ricordo scivolava via, dentro una sera di maggio di tanti anni prima.

«Dammi le manine che curiamo la bua…» sussurra sua madre. E il piccolo Michele le porge le mani ferite. Mentre lei disinfetta le piccole escoriazioni sulle dita, gli racconta che gli antichi guerrieri andavano fieri delle loro ferite. E che mostravano le cicatrici in battaglia, così gli avversari potevano capire che quei guerrieri avevano combattuto mille altre guerre, ma non si erano mai arresi. Le lacrime del bambino si asciugano, il pianto sparisce, mentre la mamma lo invita a essere come un guerriero. A non nascondere le ferite. E a non arrendersi mai alla vita.

«Va meglio?»

Michele si scosse e si arrese di nuovo. Si arrese a quel brivido, ritirando le mani e alzandosi in piedi. Si arrese, per l’ennesima volta nella sua vita, mentendo e dicendo che andava benissimo, che non sentiva dolore e che non era ferito. Si arrese sperando che Elena andasse via prima possibile. Prima che lui cominciasse a sperare nella possibilità di un ritorno. Perché nessuno ritorna, anche se lo promette. Soprattutto se lo promette.

2.

Per la prima volta dopo tanto tempo, Michele avvertì il richiamo del mare. Un vento che profumava di salsedine lo colse di sorpresa entrando di soppiatto dalla finestra socchiusa. Da quanto tempo non guardava il mare? Da quanto tempo non sentiva il suo richiamo? D’un tratto ricordò che da bambino, nelle sere d’estate, sua madre lo portava sulla riva. Passeggiavano, a piedi nudi, sulla battigia e si tenevano per mano. Poi si fermavano a guardare il lento susseguirsi delle onde sulla scogliera, lo schiaffo dolce dell’acqua salata sulla pietra. Lo sguardo di sua madre, nella penombra della sera, si perdeva dentro l’orizzonte, come se cercasse una risposta a una domanda misteriosa. E a quel punto, il bambino cercava nello sguardo di sua madre il suo orizzonte futuro.

Quando sua madre era andata via da lui, lui era andato via dal mare. Smise di cercarlo, come tutte le altre cose che amava. Così come ora avrebbe smesso di pensare a Elena che, a pensarci bene, gli ricordava il mare. Quando lei l’aveva abbracciato non era stato, forse, come l’onda che avvolge la scogliera? E i suoi baci rumorosi, schioccati sulla sua guancia, non gli ricordavano, forse, lo schiaffo dolce dell’acqua salata sulla pietra?

Il treno!, si ricordò.

Completamente preso dal suo incontro con Elena, non aveva terminato il suo lavoro. Metà del treno era ancora da pulire e sistemare. E le luci interne dei vagoni erano ormai spente. Ecco cosa accadeva a forza di stare appresso ai sogni e alle speranze: si perdeva il contatto con la realtà e col lavoro da sbrigare.

Prese una torcia elettrica e si diresse verso il treno.

Al buio, gli odori delle carrozze si avvertivano con maggiore intensità. Michele ricominciò a procedere tra i vagoni, illuminandoli con la sua torcia elettrica. Raccolse un paio di lattine di bibite dal pavimento, perlustrò i ripiani portabagagli, controllò che tutti i finestrini fossero chiusi.

Tornò verso la coda del treno e accelerò il passo quando giunse in corrispondenza del posto di Elena. Se ne allontanò in fretta, lasciandolo alle sue spalle, come riteneva fosse giusto fare.

Non-doveva-più-pensare-a-Elena. Punto.

Prima di arrivare alla coda del treno, nell’ultimo vagone, vide qualcosa che attirò la sua attenzione. Era un rilievo che spiccava su un sedile. Lo illuminò con la sua torcia elettrica, mentre il fascio di luce, improvvisamente, diminuiva di intensità. Si avvicinò, la luce della torcia ormai paragonabile a un lumicino. L’oggetto smarrito, nella penombra sempre più lieve, sembrava un libro. O forse un quaderno. In quel momento, la torcia si spense. Michele cercò di riattivarla, ma ormai le batterie erano scariche. Immerso nel buio, cercò a tastoni sul sedile e trovò l’oggetto. Lo prese e lo infilò in tasca. Per fortuna era riuscito a terminare il suo lavoro. Ora poteva tornare a casa. Guardò i suoi oggetti allineati lungo le pareti, sorrise.
«C’è un nuovo arrivo», disse, e poi estrasse dalla tasca ciò che aveva trovato sul treno per mostrarlo come al solito ai suoi amici silenziosi. Ma prima lo osservò con curiosità: era un vecchio quaderno sgualcito. Ed era rosso.
Michele sentì un brivido, una sensazione di pericolo che non riusciva a decifrare. Posò il quaderno sul tavolo come se scottasse e fece un passo indietro, perché il suo istinto, senza un motivo apparente, gli consigliava di allontanarsene. Lo osservò, guardingo, mentre il respiro diventava pesante. Sentì che l’aria faticava a penetrare nei polmoni. Si avvicinò alla finestra e l’aprì, per fare entrare il fresco della notte. Poi, a passi lenti, dopo una lunga esitazione, si avvicinò di nuovo al vecchio quaderno rosso.
Lo prese tra le mani e il suo cuore iniziò a battere forte, come impazzito.
Guardò la copertina ormai scolorita e le sue mani furono scosse da un tremore inarrestabile. Col fiato sospeso, Michele aprì il quaderno e lesse la scritta sulla prima pagina, tracciata da una calligrafia incerta e infantile.

 Miniera di Mare, 1º ottobre 1991

Diario segreto di Michele Airone

 Un vento improvviso che profumava d’infanzia lo investì fino a stordirlo. Si guardò intorno e, per un attimo, gli sembrò che tutti i suoi oggetti fossero spariti, che la casa fosse tornata quella di un tempo, piena di luce e di fiori sul davanzale.

Rivide il volto di sua madre, il suo sorriso mentre accarezzava la testa di un bambino che era seduto a un tavolo e scriveva su un quaderno rosso.

Era lui, quel bambino.

Poi il ricordo si dileguò, inghiottito dal presente, insieme al profumo della sua infanzia.

Nella stanza riapparvero i suoi oggetti smarriti, ma quel quaderno rosso era ancora lì, poggiato sullo stesso tavolo.

Era il suo diario.

Era tornato a casa con lo stesso treno che lo aveva portato via, lontano, tanti anni prima.


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