Su ilLibraio.it la recensione dell’ultimo film di Woody Allen, che dona a “La ruota delle meraviglie” un tono e uno stile recitativo che hanno il pregio di staccarsi dal cliché nevrotico

Il sole, fastidiosa reminescenza californiana e insieme luccicanza di cinema hollywoodiano per il regista di Io e Annie, illumina prepotentemente, con le tonalità calde e melodrammatiche impresse da Vittorio Storaro, l’ultimo film di Woody Allen, gettando su una scena fortemente teatrale le luci e le ombre dispercettive delle passioni e dello spettacolo, al tramonto. Così la ruota panoramica e le meraviglie scoppiettanti del lunapark fanno della Coney Island ricostruita e sognata dell’ultimo Allen tanto il luogo di una Brooklyn dell’anima e dell’infanzia quanto il palcoscenico dello show dei sentimenti ideale per il regista newyorkese. E se molti si ricordano quell’invenzione comica geniale che fu la casa di Alvy Singer bambino, incastonata nel mitico ottovolante Cyclone (1977, Annie Hall), surrealisticamente sballottata dalle vibrazioni delle vecchie montagne russe, qui in La ruota delle meraviglie – quarant’anni dopo, ma cristallizzata nell’ambientazione anni Cinquanta delle origini – la dimora coniugale della protagonista è il centro del parco dei divertimenti e di un dramma dichiaratamente alla Tennessee Williams. Il focolare del soggiorno domina la malinconica icona di un mondo dello spettacolo e di uno spazio per lo stupore che non c’è più (non c’è mai stato?), ma che vive e si rinnova ogni volta in differenti forme nell’immaginario alleniano.

la ruota delle meraviglie woody allen

Ginny (Kate Winslet, vero sole rosso abbagliante di un film a tratti un po’ spento), attrice mancata e moglie insoddisfatta dell’etilico ed edipico Humpty (Jim Belushi in versione brandiana), tradisce il marito con il bagnino narratore e aspirante commediografo Mickey (Justin Timberlake, geniale e ironico guizzo di casting), quando la figliol prodiga Carolina (Juno Temple, perfetta bellezza postbellica), fuggita di casa cinque anni prima per sposare un gangster, bussa alla porta del padre in cerca di riparo dal marito vendicativo, deciso a mettere a tacere quella che per lui è diventata una testimone scomoda. Immaginatevi dunque questa Blue Ginny in crisi di mezza età e in cerca della passione perduta, attraversata dai Bullets over Coney Island del gangster movie, il tutto calato in un’atmosfera di penetrante nostalgia, solo a tratti ironica, alla Brooklyn Danny Rose. Il panorama è molto sconsolato, e un ragazzino rosso piromane, figlio del primo amore di Ginny (e specchio del regista), dà fuoco a ogni cosa certo come sintomo il disagio del nucleo famigliare e per accendere qualche risata nello spettatore, ma anche per rievocare un ardore fuori campo, una scintilla che tutti i personaggi di questo melodramma da camera cercano di rinvenire nelle loro esistenze incerte e frustrate, nell’alcol e nell’alcova, nelle promesse dell’arte e nelle ipotesi d’avventura. E il cinema stesso, ormai digitale e lontano anni luce dai corpi pulsanti e dal nitrato d’argento, rievoca qui in qualche modo e ancora la sua essenza profonda di “passione infiammabile”.

In un film di Allen prodotto per la prima volta da Amazon, e dopo 43 film senza la responsabile del casting di una vita Juliet Taylor (una colonna portante della sua filmografia), l’autore ottantaduenne dona un tono e uno stile recitativo a La ruota delle meraviglie che hanno il pregio di staccarsi dal cliché nevrotico (secondo il quale gli attori talvolta sembrano una meccanica ripetizione del Maestro) e, attraverso la prova volutamente e splendidamente sopra le righe della Winslet, riesce a raccontare una storia crepuscolare e intensa che, attorno al canovaccio sentimentale tipico del regista (praticamente invariato da Manhattan in poi) e riprendendo i luoghi tipici della sua memoria cinematografica, lascia un retrogusto amaro e, pur guardando al passato, riesce andare oltre al già visto.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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