“In genere i libri importanti non sono stati scritti per essere importanti. Lo sono diventati”. Su ilLibraio.it un estratto dall’intimo “L’arte di narrare” di James Salter, pubblicato postumo

George Saunders lo consiglia a ogni aspirante scrittore, John Irving elogia il suo stile e la sua capacità di esprimere sinteticamente le sue convinzioni, Richard Ford lo chiama “maestro”: a due anni dalla morte di James Salter, il suo ultimo libro pubblicato postumo, L’arte di narrare (Guanda, traduzione di Katia Bagnoli), ha colpito lettori e scrittori.

In  una sorta di intimo dialogo con il lettore, Salter tira le somme di tutte le sue considerazioni su scrittura e lettura, ci parla dei suoi autori che l’hanno sedotto e incantato come Balzac, Flaubert, Babel’, Dreiser, Céline, Faulkner, e ci offre l’occasione di vedere come un grande autore legga i romanzi altrui. Con la sua capacità di raccontare in una prosa limpida e precisa, Salter parla di temi universali quali la guerra, la giovinezza, l’erotismo, e ci mostra come la vita stessa di un autore possa ergersi a letteratura, senza scadere nel mero autobiografismo fine a se stesso.

Ma la vita dello scrittore non è tutta rose e fiori, e Salter non tralascia di raccontare quei lati oscuri che tutti sanno esistere, ma che pochi raccontano, come le lettere di rifiuto delle case editrici, le recensioni negative, la cronica preoccupazione per la mancanza di denaro. Il libro è un aiuto prezioso per  carpire l’esperienza di Salter come autore e come lettore. La sua produzione è esigua, proprio perché ben curata: per Guanda, con traduzione di Katia Bagnoli, ha pubblicato Per la gloria, La solitudine del cielo, L’ultima notte, Tutto quel che è la vitaUna perfetta felicità. Un gioco e un passatempo in traduzione di Delfina Vezzoli, è uscito prima per Bur e poi per Guanda.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto:

In genere i libri importanti non sono stati scritti per essere importanti. Lo sono diventati. Per libro importante intendo un libro che sia ritenuto tale e a cui tutti facciano riferimento. Non posso pensare che Il giovane Holden sia stato scritto con lo scopo di farne una pietra miliare della letteratura, capace di cambiarti la vita. Credo che fosse semplicemente sincero. Il buio oltre la siepe non porta i segni di un’importanza perseguita deliberatamente, anche se in effetti non so quali fossero le vere intenzioni di Harper Lee. Fitzgerald riteneva che tutti i suoi libri fossero importanti.

Il grande Gatsby era un romanzo di appena duecento pagine, ma lui aveva insistito perché l’editore lo vendesse allo stesso prezzo dei suoi libri più lunghi. La montagna incantata sembra un libro scritto da chi ne ha ben chiara in mente l’importanza, soprattutto conoscendo Thomas Mann. La morte a Venezia, di sicuro: lo scrittore in là con gli anni, Aschenbach, la sua rettitudine e disciplina, il bellissimo Tadzio, quattordicenne, figlio di un’aristocratica famiglia polacca. La morte a Venezia è un libro filosofico, serio, cupamente poetico… amore e morte, i due soggetti primari. Aschenbach non parla mai con il giovane, tanto meno lo tocca. La Venezia di Byron, la
Venezia di Eleonora Duse, le piazzette illuminate dal sole e i canali fiancheggiati dai grandi palazzi galleggianti, le gondole silenziose, le insondabili profondità. Aschenbach si rende conto che per lui era «destino» andare lì e nel suo subconscio comprende, con uno sgomento erotico, di andarvi a morire. Non si può non pensare al romanzo di John O’Hara Appuntamento a Samarra, un altro luogo dove il destino ti manda ignaro incontro alla morte. Ogni storia, come dice Flaherty, è il tema del luogo in cui si svolge. A sangue freddo di Truman Capote è ambientato nei campi di grano del Kansas. C’è una figura centrale, il detective, e c’è un crimine realmente accaduto. Capote ne lesse per caso il resoconto sul giornale, un articolo piuttosto breve.

La notizia stuzzicò la sua curiosità. Era scioccante, anche se non più orribile di altri crimini comuni, eppure sembrava una violazione particolarmente efferata: durante la notte due uomini si introducono in una fattoria e ne uccidono gli occupanti uno a uno, mentre la figlia più giovane, sentiti gli spari e capito cosa sta succedendo, resta immobile nel suo letto ad aspettare che i due salgano da lei. Capote aveva l’inizio, e il libro fu scritto man mano che le indagini procedevano, fornendogli la trama… la storia, prima ancora della trama. È tutto vero, ed è vero anche che lo si legge più come un romanzo che come la cronaca di un crimine. Ha il tono e i ritmi di un romanzo. Parte del suo fascino consiste nel fatto che l’autore non ha pensato a un finale, osa e basta. Per dirla con Joyce: «Il caso mi fornisce tutto ciò di cui ho bisogno». E per fortuna il finale arriva, inaspettato: gli assassini vengono presi. E c’è un finale ulteriore, di grande potenza emotiva, quando lo scrittore assiste alla loro esecuzione, seguendo tutta l’agghiacciante procedura, e la dolorosa compassione che prova per loro si fonde con la nostra.

(continua in libreria…)

 

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