In quest’intervista a ilLibraio.it, Adrien Bosc racconta il suo esordio letterario, “Prendere il volo”, che narra, romanzandola, la vicenda del volo del Constellation del 1949: “Tra i tanti compiti dello scrittore, c’è quello di sottrarre storie all’oblio: tutte queste persone che erano destinate all’anonimato trovano un ricordo sulla pagina scritta”. E parla, tra l’altro, della sua attività di editore: “Ho creato quattro anni fa ‘Feuilletton’, una rivista dedicata ai lunghi reportage che normalmente non sono più pubblicati sui quotidiani in Francia, perché i direttori continuano a dire che bisogna tagliare i pezzi…”

Nel suo esordio narrativo, Prendere il volo (Guanda), Adrien Bosc torna nel 1949, quando nella notte tra il  27 e 28 ottobre l’aereo di punta dell’Air France, il Constellation, si schianta nel volo verso New York. Unendo indissolubilmente storia e immaginazione, Bosc vuole restituire alle quarantotto vittime una loro identità. E la combinazione è vincente: oltre 150.000 lettori, al suo esordio in Francia, hanno preso il volo con il grande pugile Marcel Cerdan, la violinista Ginette Neveu e gli altri quarantasei sfortunati (e altrimenti anonimi) passeggeri del volo. A Milano per partecipare a Bookcity e al Festival della narrativa francese, Adrien Bosc ha raccontato cosa ha mosso le fila della sua ricerca storica e narrativa e lo ringraziamo per la sua disponibilità, poco prima di riprendere… il volo.

Quarantotto passeggeri, quarantotto motivi hanno portato persone sconosciute sulla passerella del volo. Alcune non dovevano neanche partire. La casualità ha fatto incontrare i personaggi in un terribile destino comune. In Prendere il volo, il destino sembra essere solo questione di punti di vista. E l’ispirazione di un narratore, è questione di punti di vista?
“Totalmente! Se avessimo chiesto di scrivere di questo incidente a dieci, venti scrittori diversi, pur avendo lo stesso canovaccio, avremmo davanti a noi dieci, venti storie differenti. A eccezione di qualche scrittore senza talento, gli altri avrebbero affiancato all’impalcatura del fatto di cronaca le loro esperienze, le loro ossessioni, i loro background culturali, e soprattutto avrebbero immaginato legami diversi tra i personaggi. Io ho fatto altrettanto: ho creato legami dove forse in realtà non ci sono mai stati, lasciandomi suggestionare. Per esempio, nel romanzo immagino che una cantante abbia cantato il giorno in cui è arrivato il corpo della violinista Neveu, come in una sorta di messa da requiem per la violinista. Io ho creato un senso dove magari non esisteva. Oppure il poeta, Cendras, che si sposa in Svizzera proprio il giorno dell’incidente aereo. Credo che il lettore accetti il mio punto di vista su questa storia, diverso da quello di altri scrittori…”.

Al di là della parte finzionale, c’è moltissima storia. Le vittime vengono sempre trattate con grande rispetto: «Non esiste un io onnisciente che indossa gli abiti delle vittime come ci si infila nei costumi di un teatrino d’epoca», leggiamo a p. 120. Quale limite deve porsi un narratore nel romanzare fatti storicamente accaduti?
“Nel 1913 Blaise Cendrars ha scritto La prosa della Transiberiana, una delle poesie più belle del modernismo, in cui fa riferimento alle tante innovazioni e al viaggio. Al critico che gli chiese se avesse davvero preso il treno per la Transiberiana, Cendrars, rispose: “Cosa importa se io l’abbia preso o no? Importa solo che i lettori siano tutti partiti con me”. Penso stia qui la chiave di lettura: conta davvero poter tracciare una linea di demarcazione netta tra ciò che è reale e ciò che è narrativo? Secondo me l’unico limite necessario è rispettare la vita degli altri:, nel romanzo, la raccolta dei dettagli delle vite delle vittime è stata totalizzante, quasi un’ossessione. Nonostante questo, da lì ho innovato: dopo aver scritto lo “scheletro” dei fatti storicamente certi, ho aggiunto la “carne” dell’immaginazione. Il tutto sempre nel rispetto delle vittime e dei loro familiari: nella scrittura, libertà non significa assenza di morale”.

Già a un primo sguardo, si capisce subito che il romanzo è curatissimo, anche nella struttura. Come spiega l’uso di così tante epigrafi letterarie? Sono nate durante la prima stesura?
“Sì, sono nate subito, come supporto per questo romanzo specifico: sono epigrafi simili a quelle che si scrivono sulle tombe: la frase di una persona cara, una citazione letteraria… L’epigrafe racconta qualcosa della nostra vita e del nostro percorso: ho voluto fare lo stesso sulle tombe dei personaggi. Tutte le epigrafi insieme costituiscono lo speciale mausoleo che ho costruito per loro. Spesso mi sono ispirato ai surrealisti francesi che amo molto, non tanto per la loro eccentricità, ma per l’utilizzo di una prospettiva oggettiva. Qualche nome tra i miei modelli? André Breton e tanti altri autori vissuti nel primo cinquantennio del ‘900 e, tra gli italiani, Antonio Tabucchi”.

Sempre a proposito del paratesto, la traduzione italiana del titolo trasforma l’originario Constellation in Prendere il volo. Cosa ne pensa?
“Mi piace molto, devo ringraziare sia l’editore sia la traduttrice italiana. Walter Benjamin ne Il compito del traduttore sostiene che ogni traduzione comporti un’esperienza di dolore, perché la voce dell’autore viene in un certo senso abbandonata a vantaggio della voce del traduttore. In questo caso, la traduzione letterale sarebbe stata molto più lontana dal testo rispetto a una traduzione narrativa: il titolo è stato cambiato perché ci sarebbe stata confusione tra il nome dell’aereo ‘Constellation’, banalizzato nel più anonimo ‘Costellazione’. Anche in Germania sarà cambiato in ‘Domani mattina a New York’. Invece nel mondo anglosassone funziona benissimo il titolo originale, che riassume il nome dell’aereo ma allude anche alla costruzione del libro: l’unione delle vite dei vari personaggi forma via via una costellazione.  Come avviene nel gioco dei bambini “unisci i puntini” della settimana enigmistica: i vari punti, una volta uniti, formano un’immagine unica! Il risultato è quel mausoleo di ritratti e di ricordi a cui facevo riferimento prima”.

Ha parlato di mausoleo. Dunque, il progetto iniziale ha preso le mosse non tanto dalla curiosità ma soprattutto dal desiderio di dare voce ai tanti nomi meno noti tra le vittime?
“Esatto. Tra i tanti compiti dello scrittore, c’è quello di sottrarre storie all’oblio: tutte queste persone che erano destinate all’anonimato trovano un ricordo sulla pagina scritta. Se ci pensiamo, in occasione di disastri aerei si tende ad assimilare tutte le vittime citando solo il nome dell’aereo, dicendo ad esempio ‘le vittime del German Wings’, e diventa una sorta di pubblicità della compagnia. L’incidente del Constellation è indicato spesso come ‘il disastro in cui è morto Cerdan, il grande pugile’: lui, la stella, e tutti gli altri caduti nell’anonimato. Se invece pensiamo a una costellazione, tutte le stelle splendono e meritano di essere viste. Come scrittore, ho voluto metterle tutte sullo stesso piano: certo, quelle vicine (i personaggi famosi) ci paiono più luminose, ma anche le altre rischiarano il cielo. Il mio lavoro di scrittore è stato di dare a tutti la stessa luminosità, senza differenza di proporzioni e prospettiva”.

Infine, una domanda dedicata alla sua vita da giovane editore. Da qualche anno, hai aperto le Editions Du-Sous: cosa significa oggi pubblicare riviste? È una risposta positiva e creativa alla crisi?
“Ho creato quattro anni fa ‘Feuilletton’, una rivista dedicata ai lunghi reportage che normalmente non sono più pubblicati sui quotidiani in Francia, perché i direttori continuano a dire che bisogna tagliare i pezzi. Invece io penso che siano i reportage corposi più interessanti, perché ci permettono di uscire dalla descrizione spesso caricaturale degli eventi che troviamo sui quotidiani. Ho creato questa rivista sulla base della nuova tendenza anglosassone di pubblicare riviste letterarie trimestrali. Non so se sia la risposta alla crisi della carta stampata, ma di sicuro è una delle possibili risposte, tra le più stimolanti per me”.

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