“Più ci ragiono più credo che scriviamo d’amore perché se non facessimo così non scriveremmo affatto. O meglio: non faremmo nulla che potesse valerne il gesto”. Su ilLibraio.it la riflessione di Alessandro Barbaglia, scrittore, poeta e libraio, in uscita con “La locanda dell’ultima solitudine”, secondo cui “scriviamo d’amore anche quando non scriviamo d’amore”

Avrò avuto sette anni, al massimo otto. Sì, non più di otto perché ai tempi i miei cugini di dodici mi sembravano grandi, i miei genitori di trentasei vecchi e ritenevo l’età dei miei nonni più adatta a un albero che a un essere umano.

Avevo così tanta paura del tempo che se mia madre mi chiedeva di star seduto anche un solo minuto per concederle l’occasione di un caffè io contavo velocissimo fino a sessanta come dovessi uscire da un’apnea. E l’ora di catechismo? Mai vissuto nulla di più infinito: un’ora! Un’ora intera! Ma chi ce l’ha un’ora intera a otto anni!? È troppo, hai tutto da fare, a otto anni, non puoi star fermo un’ora!

Eppure, quando la mia idea di tempo era insostenibile se superava la soglia dell’immediato, per la prima volta, mi augurai qualcosa di eterno: la mia compagna di banco. La bimba con le lentiggini rosse.

Fu per lei che scrissi per la prima volta. E fu lei che aprì la mia busta di carta a quadretti piegata male e lesse la mia lettera.

Poche righe di parole semplici, righe ballerine fatte del ritmo del mio corsivo tremulo. Lei lesse tutto, sorrise, alzò un braccio. Per abbracciarmi, era evidente. Era così evidente che chiusi gli occhi. E fu per quello che non vidi il braccio andare ben dritto in altezza ben sopra la mia testa.

“Maestra – aprii gli occhi, la mia compagna di banco aveva il braccio tutto teso e un dito alzato in cima alla mano semichiusa – Maestra, Alessandro ha scritto SENPRE! Con la N!”.

Disse.

Non era vero, ovviamente, era una M quella che avevo messo al centro di quel “sempre” che arrivava dopo “ti amo e ti amerò per…” e che chiudeva la lettera con quell’ultima e decisiva confessione. Era il mio corsivo ad essere incerto, non certo la mia grammatica… Ecco, io penso sempre alla storia della bimba con le lentiggini rosse quando mi chiedo: perché se scriviamo non possiamo fare a meno di scrivere d’amore? E che ne sappiamo dell’amore per arrivare al punto da volerne scrivere? E perché se ci annoiamo per un pomeriggio di pioggia o per un treno in ritardo di 10 minuti desideriamo così tanto una cosa che ha in sé la minaccia di essere eterna?

L’amore è talmente sconosciuto che è l’argomento di cui si scrive di più. Lo facciamo per conoscerlo? Per provarne a tentativi ogni tentazione? Per accorgersi che la passione si chiama così perché passa? Perché discendiamo tutti dai pesci e ci piace scrivere la parola ‘amore’ perché inizia per un amo a cui vorremmo tutti abboccare? No (anche perché poi discendiamo dalle scimmie).

In realtà, io, più ci ragiono più credo che scriviamo d’amore perché se non facessimo così non scriveremmo affatto. O meglio: non faremmo nulla che potesse valerne il gesto. Che gesto? Il nostro, singolo, personale, intimo gesto. Scriviamo d’amore per le stesse ragioni per cui balliamo, cantiamo, dipingiamo e saltiamo la corda: perché a volte c’è un violento incontenibile che viene ad abitarci e noi, quell’incontenibile, non sappiamo dove metterlo e facciamo un gesto. Un urlo. Un cenno: un poema. Ognuno quello che sente più proprio. Konrad Lorenz non avrebbe raccontato delle sue paperelle se non le avesse amate, Albert Einstein non avrebbe illustrato la sua teoria della relatività se non ne fosse stato profondamente innamorato e persino Omero non avrebbe raccontato la guerra del mito se non l’avesse amata tanto. Perché l’amore è cieco, come Omero.

Scriviamo d’amore anche quando non scriviamo d’amore: ecco perché scriviamo sempre d’amore! Anche il mio cane scodinzola poesie che il più cane dei poeti si sognerebbe di immaginare così belle! E lo fa per quella medesima ragione per cui Shakespeare ci racconta di Amleto (tragedia, direte voi, ma quanto amore tracima da quel fantasma di un padre, e l’amore, poi, perché non deve esser anche un po’ tragedia? È il suo bello!).

Il potente spettacolo continua e tu puoi contribuire con un verso, diceva Walt Whitman. Ecco perché scriviamo d’amore: per contribuire alla vita con un verso che a prescindere da quale sia ha in sé la direzione dell’amore: arriva da lì

Forse alla fine ha davvero  ragione Emily Dickinson quando dice che dell’amore non sappiamo nulla se non che l’amore è tutto. Ecco perché ne scriviamo tanto. Perché se non scrivessimo di tutto di cos’altro potremmo scrivere?

P.S. Scrivere d’amore è anche è anche un modo per essere eleganti. Ad esempio della bimba con le lentiggini rossi io potrei vendicarmi svelandone il nome. Ma chi scrive d’amore queste cose non le fa. Vai tranquilla Elisa!

Alessandro Barbaglia

L’AUTORE E IL SUO ROMANZO – Alessandro Barbaglia è un giovane poeta e libraio che vive a Novara. Il romanzo La locanda dell’ultima solitudine (Mondadori) è il suo primo libro pubblicato da un grande editore: una scrittura lieve e poetica, tra giochi linguistici, pennellate surreali e tenerezza, con cui l’autore ci racconta una storia d’amore. Quella di Libero e Viola, due ragazzi che cercano ognuno il proprio posto nel mondo. E nel farlo si sfiorano, come due isole lontane che per l’istante di un’onda si trovano dentro lo stesso azzurro. 

La locanda dell'ultima solitudine


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