L’autrice e maestra di scuola elementare Mariafrancesca Venturo (in libreria con il romanzo “Sperando che il mondo mi chiami”), riflette su come le capacità di sognare e immaginare sia istintiva nei bambini e poi venga accantonata con l’avvento della vita adulta

Le 8.20 di un mercoledì, il cancello si apre, il silenzio è incrinato dal suono metallico di una campana e lo scalpitare di piccoli passi che invadono il corridoio della scuola dove lavoro: un ticchettio incalzante ed entusiasta.

Quest’anno sono tornata in prima elementare. Tutti i giorni insieme alle bambine e ai bambini cerchiamo di capire chi siamo e come funziona il mondo, e per farlo impariamo a usare i primi ferri del mestiere: leggere, scrivere, osservare, ascoltare, comunicare, pensare.

“Com’è andata la giornata ieri? Avete dormito bene?” ci conosciamo da poco e la mattina scambiamo due chiacchiere.

“Stanotte ho fatto un sogno incredibile!” esclama una ragazzina con ancora il segno del cuscino stampato sul viso. Lo immagini che avrebbe voluto dormire un altro po’.

“Ho rivisto tutta la mia vacanza al mare! Ma uguale uguale, proprio com’era dal vero!” e la sua voce è piena di soddisfazione.

Questa rivelazione suscita nei suoi compagni un certo interesse e così la discussione si anima subito: io una volta ho sognato una giostra, io un parco con gli unicorni viola, io la mia amica che sta a Terracina.

Ogni racconto è importante e si crea un bel clima di ascolto, tutti sognano, a modo proprio, senza distinzione di provenienza o carattere e si può parlare liberi dai pregiudizi e dalle aspettative.

Qualcuno vuole dire di più e per farlo alza la voce: io voglio raccontare due sogni, io ne ho quattro, no scegline uno, io invece vorrei dire che i sogni brutti si chiamano incubi e invece quelli belli si chiamano soltanto sogni.

“Da dove vengono i sogni secondo voi?” spero che la mia domanda alimenti la curiosità, il ragionamento, l’attenzione.

“Dal cervello” ipotizza qualcuno. “No, non dal cervello, dalla mente perché si può sognare anche senza dormire”.

I sogni vengono dal futuro!” grida una ragazzina alzando la mano con l’impulso di chi si è appena resa conto di una grande verità.

Questa frase a metà tra un’intuizione fantastica e una rivelazione filosofica, mi colpisce.

I sogni vengono dal futuro.

Come se ci fosse qualcuno in una dimensione lontana da qui che ci spedisce i sogni con una macchina del tempo.

C’è qualcosa di vero in queste parole che una bambina di sei anni mette insieme per la prima volta.

In fondo c’è poca distanza tra l’esperienza onirica, involontaria, naturale, e la volontà di immaginare.

Così prendo questa frase che per me è spettacolare e me la porto a casa come fosse un regalo inaspettato. L’apprendimento è una questione di scambio.

Che cosa c’entrano i sogni con il futuro?

Questa di sapersi proiettare nel futuro è una capacità che i bambini sanno sviluppare in modo istintivo, liberi da ogni zavorra legata alla contingenza; non è difficile per loro immaginarsi fra vent’anni a fare il calciatore, il cuoco che cucina solo pasta al pesto o la veterinaria dei pappagalli e poi cambiare idea il giorno seguente, così come non è difficile a quell’età immaginarsi tra mille anni: “Forse vivremo su un altro pianeta e avremo tutti una mini-astronave per andare al lavoro” mi ha detto una volta un ragazzino di quarta elementare.

Poi accade che nemmeno troppo all’improvviso questa capacità sbiadisca, o venga semplicemente accantonata, perché da adulti la vita è complicata o forse solamente perché per qualche ragione cominciamo ad averne timore come se la quotidianità si riducesse a un aggregato di concretezza dettato dalle influenze del momento alle quali obbedire.

Eppure tutto quello che ci ha proiettati nel futuro, in qualche modo, ha posto le sue basi sulla capacità di sognare, di essere in grado di andare oltre l’immaginazione per mettere in collegamento parti di realtà apparentemente distanti tra loro.

Quando un bambino mi chiede a che cosa serve la scuola mi ritrovo spesso a dare la stessa risposta: la scuola serve a prepararci alla vita e a migliorare questo mondo, imparando dai nostri errori, sviluppando i nostri talenti, osservando l’universo, conoscendo chi mi è accanto. Da oggi potrei rispondere anche che la scuola serve a prenderci cura dei nostri sogni.

Quella bambina aveva ragione: i sogni vengono dal futuro perché è sui sogni che dovremmo costruirlo.

IL LIBRO E L’AUTRICE – Mariafrancesca Venturo è una maestra di scuola elementare, vive a Roma insieme al marito e alla sua inseparabile cagnolina Babette, ha studiato recitazione e danza. Dopo aver pubblicato libri sul poeta Edoardo Sanguineti, sulla sindrome dello shopping e sul metodo Montessori, scrive il suo primo romanzo, Sperando che il mondo mi chiami (edito da Longanesi). Il libro racconta la storia di Carolina Altieri, una maestra, proprio come l’autrice, ma ancora, e non sa per quanto, una supplente, costretta a vivere alla giornata. Carolina racconta il rocambolesco mondo della scuola, popolato da pendolari speranzosi e segretarie svogliate, e la sua passione per i bambini, che tra sorrisi impetuosi, inaspettate verità e abbracci improvvisi riescono sempre a sorprenderla e a insegnarle qualcosa.

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