Al Piccolo Teatro Grassi di Milano fino al 18 dicembre, e poi a Parigi, Napoli e Firenze. ilLibraio.it ha visto “Elvira”: trent’anni dopo Strehler, con Toni Servillo le riflessioni di Jouvet sul teatro diventano uno spettacolo di raffinatissima ragione e sentimento…

Che sia una storia d’amore lo si capisce dalle date: inizia il 14 febbraio, giorno di San Valentino, e finisce il 21 settembre, all’alba dell’equinozio d’autunno, quando la passione ingiallisce come sugli alberi le foglie. Poi sentire Toni Servillo dire “Vi ho amato” vale l’intera recita.

Tuttavia, il sentimento in questione non è tanto quello di Elvira per Don Giovanni, ma quello di Servillo, alias Louis Jouvet, per i suoi allievi attori, e quello di tutti costoro nei confronti del Teatro: in questo senso, Elvira è una dichiarazione d’amore per quell’arte chiamata drammatica.

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Coprodotto dal Piccolo e da Teatri Uniti, lo spettacolo replica al Grassi di Milano fino al 18 dicembre; poi sarà a Parigi, Napoli e Firenze: il canovaccio, tradotto da Giuseppe Montesano, è tratto da Elvira Jouvet 40 di Brigitte Jacques, la quale ha rimaneggiato per il palcoscenico sette lezioni del maestro, attore e regista Jouvet, lezioni di recitazione tenute agli allievi del Conservatoire d’Art Dramatique di Parigi nel 1940, coi nazisti alle porte della città.

Gli spettatori vedono il “teatro al lavoro”, assistendo alle prove della VI scena del IV atto del Don Giovanni di Molière, di cui è protagonista Elvira, strappata al convento, presa in moglie “per scherzo” e poi bellamente scaricata. E questo è il primo livello; in scena, però, si assiste al secondo, ovvero al lavoro del pedagogo Jouvet con i suoi studenti: Claudia (Petra Valentini), orgogliosa e recalcitrante a mettersi nei panni di Elvira; Octave (Francesco Marino), disorientato dal volitivo Don Giovanni; Léon (Davide Cirri), abbastanza disinvolto e ricettivo nella parte di Sganarello.

Il conflitto, più che tra maestro e allievi, è tra teatranti e Molière, tra comédiens e Opera, di fronte alla quale tutti sono “nudi” e impreparati: Jouvet chiede ai ragazzi, a Claudia innanzitutto, di non abbassare il personaggio a sé, ma di elevarsi a lui; chiede di non truccare la parte, di non imbrogliare con la tecnica, il funambolismo, l’istrionismo; chiede di trovare e “provare il sentimento di questa donna che viene qui non solo come inviata celeste, ma come una donna che viene a salvare il suo amante… Bisogna che il sentimento ti obblighi a dire il testo. È questa l’arte dell’attore… L’intelligenza del teatro è un’intuizione, non è l’intelligenza degli intellettuali; è un senso che si ha”.

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Altrettanto esigente, Servillo domanda agli interpreti, cioè in primis a se stesso, “di essere poeti per un modo di stare al mondo, per una visione del mondo”, pretendendo “rigore e approfondimento che tendono alla poesia, all’incandescenza” – quanto a un’altra incandescenza, occorre riconoscere che le luci di Pasquale Mari sono straordinarie, sempre in levare, spegnendosi a ogni fine scena un attimo prima che la battuta chiuda.

“Il comédien esiste grazie allo sforzo, alla disciplina interiore, a una regola di vita dei suoi pensieri, del suo corpo. Il suo lavoro si basa su una modestia particolare, un annullarsi”, scrive il regista nelle note. Il rischio, però, è che l’operazione risuoni solo per gli addetti ai lavori. Per apprezzare questo spettacolo di raffinatissima ragione e sentimento pure, il pubblico deve fare anch’esso uno sforzo, un lavorio interiore contro stereotipi e pregiudizi: sì, il teatro è faticoso, ripetitivo, difficile, forse noioso – ma se lo dice Servillo c’è da fidarsi e da affidarsi, essendo probabilmente l’unico oggi in Italia a poter reggere una rappresentazione di questo tipo.

Lo spiega anche Jouvet: “Una cosa ottenuta senza sforzo non è bene. L’esecuzione di una parte comporta sempre qualcosa di difficile, di doloroso… È proprio perché stai così comoda nella parte, che la scena non va oltre la ribalta”. La prim’attrice, tuttavia, gli tiene testa; sostiene di non essere “toccata da quel personaggio, da quello che prova. È talmente lontano da me!”. Lui secco ribatte: “Tutti i sentimenti sono gli stessi!… Fallo come vuoi (il personaggio di Elvira, ndr), non hai bisogno di piangere, ma fa’ che dentro di te ci siano veramente delle lacrime… Quando tu dici senza emozione: ‘Ve lo chiedo con le lacrime’ è infinitamente più commovente”.

E qui saliamo di un ulteriore livello, e siamo alla vita, ma il mistico e dogmatico comédien taglia corto: “Ho tentato d’imparare e di capire questo gioco, che gioco non è, del recitare e le ragioni di coloro che al gioco partecipano. Non l’ho capito”.

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