“L’italiano è la lingua in cui scrivo i miei sogni, quella del diario, quella in cui parlo quotidianamente, molto più che il cinese mandarino”. Su ilLibraio.it l’intervista a Shi Yang Shi, attore e mediatore culturale di origine cinese, in Italia dall’età di 11 anni, che in “Cuore di seta” racconta la sua storia: “Non ho mai subito atti di razzismo”. Allo stesso tempo, ammette i problemi: “Mi sento un ponticello fra tanti, e credo che i distruttori dei ponti siano per primi quelli che sponsorizzano a prescindere l’idea che le seconde generazioni siano dei ponti culturali”

Quella che Shi Yang Shi racconta in Cuore di seta (Mondadori), è una storia attualissima ed emblematica. La sua storia. Era il marzo del 1990 e, a soli undici anni, lasciava la Cina, insieme alla madre, per trasferirsi in Italia. Figlio unico, cresciuto in una famiglia benestante, l’autore si ritrova a Milano, senza il padre, ingegnere. Tutto è nuovo per lui, a partire dalla lingua.

Shi Yang Shi cresce non senza difficoltà, anche economiche, come racconta in quest’intervista a ilLibraio.it, cercando un equilibrio tra il legame con la terra d’origine e i suoi valori, e quelli del Paese in cui la sua vita è ricominciata.

Cittadino italiano dal 2006, oggi fa l’attore e l’interprete ed è stato anche inviato delle Iene su Italia1. Non solo: è anche impegnato in attività di mediazione culturale.

Yang Shi Shi

Iniziamo dalla lingua: qual è il suo rapporto con l’italiano?
“È la lingua in cui scrivo i miei sogni, quella del diario, quella in cui parlo quotidianamente, molto più che il cinese mandarino. Spesso parlo in italiano anche con altri ragazzi d’origine cinese, nati o cresciuti in Italia. Insomma, è la lingua che veicola la mia identità, anche se confesso di preferire, sempre e comunque, il cibo cinese!”.

A proposito, ha scritto questo libro direttamente in italiano?
“Sì, anche perché non saprei scrivere in cinese se non con enormi difficoltà, e comunque al computer. A volte mi capita di scrivere parole italiane che unisco come nella sintesi degli ideogrammi cinesi, creando neologismi ma, per vostra fortuna, ce ne sono ben pochi in Cuore di seta“.

Nei suoi confronti l’Italia, dove vive ormai da molti anni, è stata una terra accogliente?
“Direi proprio di sì. Non ho sofferto, in termini relativi se esistesse una bilancia del dolore, come tanti altri immigrati e rifugiati, di cui ho letto o sentito storie pesantissime. Certo non sono mancate le sfighe o, meglio, le ‘medaglie al valore’ dei sacrifici durante la preadolescenza e la gioventù (ho fatto il lavapiatti in Calabria a 12 anni e per sette estati sono stato un vu’ cumprà in Romagna…)”.

Niente razzismo, dunque.
“No, non ho mai subito atti di razzismo. E ho visto nell’animo di moltissimi italiani – anche se non in tutti – grande ospitalità e generosità”.

Il teatro e la recitazione l’hanno aiutata a integrarsi?
“No. Mi ero integrato già prima di iniziare teatro, da bambino, e grazie alla scuola ho fatto amicizie, che però non sono durate dopo le superiori; a parte una, quella con Enrico, il mio amico della quinta elementare, che viene con me in vacanza in Cina e che ora vive in Africa”.

E il teatro in che modo l’ha aiutata?
“Se per integrazione si intende la consapevolezza e una più profonda e capillare conoscenza del territorio, allora sì: il teatro sociale, nell’esperienza settennale del Compost Prato, mi ha permesso di conoscere meglio la mia gente, formata da tanti pezzi di identità sociali, spesso in conflitto tra loro. E lo strumento artistico teatrale, compresi i ruoli che ho recitato in tv e al cinema, sono stati utili per connettere positivamente le persone. A beneficiarne sono stato io per primo”.

Lei dimostra un approccio positivo alla vita: anche ridere l’ha aiutata a inserirsi?
“Come racconto a un certo punto nel libro, la professoressa Misiano alle medie si è arrabbiata con me perché sorridevo anche dopo che mi aveva ripreso, in una sorta di sfida. A volte la mia risata è isterica, a volte è una maschera attoriale a comando, ma parte sempre da una verità interiore: la mia gioia indistruttibile e la fiducia nella vita, anche nei momenti peggiori, anche se bisogna artificialmente sorridere per non soccombere. Mi aggrappo al bicchiere mezzo pieno e guai a chi cerca di staccarmi”.

Le diffidenze nei confronti della comunità cinese permangono, nonostante molti passi avanti siano stati fatti. Lei è impegnato a fare da “ponte” tra le due culture: a che punto siamo?
“Mi sento un ponticello fra tanti, e credo che i distruttori dei ponti siano per primi quelli che sponsorizzano a prescindere l’idea che le seconde generazioni siano dei ponti culturali”.

In che senso?
“Recenti cronache internazionali ci dimostrano come le radicalizzazioni di ragazzi dalle profonde sofferenze identitarie e personali siano tutt’altro che ponti affidabili; anzi, nel peggiore dei casi, li fanno anche esplodere”.

E qual è il suo impegno?
“Personalmente sono impegnato a risvegliare la compassione come valore Buddhista in me per primo, per scalfire, anche per poco, chiusure identitarie tra persone che non accettano di comprendere le ragioni degli altri, ritenendoli nemici delle proprie idee. E non saprei fare un punto della situazione in questo contesto, ma posso dire che mi sembra di vedere avvicinarsi un cambiamento positivo. O, almeno, me lo auguro. Per quel che riguarda la comunità cinese d’Italia, vedo ragazzi giovani, tra i 20 e i 30 anni, che si interrogano sulla cultura e sulla politica. E vogliono partecipare. Li sostengo pienamente”.

Quindi, a proposito delle nuove generazioni di ragazzi cinesi nati in Italia, l’integrazione è meno problematica?
“Non è meno problematica, perché nonostante tu parli bene l’italiano e magari anche il dialetto, in genere nessuno dei tuoi parenti cinesi ti ha raccontato la grande storia cinese attraverso i piccoli aneddoti del proprio vissuto. Spesso gli adulti sono troppo impegnati a lavorare… dall’altro lato, a parte la scuola, che non è sempre così coinvolgente, in genere non ci sono amici italiani che, attraverso racconti familiari, ti coinvolgono nella consapevolezza storica dell’Italia. Forse chiedo troppo ai miei ‘simili’, ma vivo la fierezza di appartenere a due profonde culture e solo attingendo a ciò che di più prezioso ci hanno lasciato gli antenati, anche greci e latini, possiamo, forse, inventarci un futuro più prospero ed equo per tutti”.

Ora è anche uno scrittore: qual è il suo rapporto con la lettura?
“Amo leggere, ma, ahimè, lo faccio troppo poco. Ammetto di essere un po’ ignorante… In casa mia i libri sono in disordine, ma sono ovunque, comprese le riviste e i ritagli di giornale, in bagno, sulla scrivania, negli scaffali, negli scatoloni. Da anni mi riprometto di leggere in cinese. Quando ci provo riempio le pagine di segni per gli ideogrammi sconosciuti e mi scoraggio presto. Forse devo andare avanti e insistere, non crede?”

Quali sono i suoi scrittori cinesi preferiti?
“Mo Yan è un mio compaesano dello Shandong, però l’ho solo letto in italiano. Yu Hua mi piace moltissimo e lo sto leggendo in cinese, senza fermarmi troppo a segnare gli ideogrammi. Mi piace la mia lingua madre, ma ho ancora un rapporto difficile con essa, perché si attacca direttamente al mio inconscio. Smisi di scrivere lettere in cinese quando, da bambino emigrato a Milano, mi sentivo costretto a raccontare solo cose belle. E da allora ancora non ho fatto pace con la scrittura in cinese. Forse è il caso di riprendere seriamente, chissà, magari cominciando a tradurre Cuore di seta in cinese…”.

E quali sono i libri italiani che ha amato?
“Ce ne sono molti, ma vorrei ricordare Se questo è un uomo di Primo Levi. Ci feci l’esame di maturità e da sempre sono molto sensibile alle tematiche legate all’Olocausto. E vorrei citare due poetesse: ho amato moltissimo sia i versi di Alda Merini sia quelli di Vittoria Palazzo”.

Cosa prova quando torna in Cina?
“Vorrei tornarci due volte l’anno, ma poi, se va bene, riesco a farlo ogni due. Quando sono in Cina provo estraneazione, entusiasmo, delusione, nostalgia ed eccitazione… Una volta ci tornavo felice di ritrovare la nonna, non solo per i suoi ravioli. Ora che è mancata, da anni ci vado più per lavoro che per ritrovare i parenti. Ci sono due motivi per cui tornerei più spesso: il primo è farmi ispirare dall’entusiasmo della società cinese, che ha più speranza, certezze e ottimismo verso il proprio futuro. Lo vedi per strada, lo senti nell’aria, sì inquinata, ma lo senti; il secondo è la ricerca spirituale: vorrei compiere pellegrinaggi nei luoghi sacri, compresi quelli nascosti nelle megalopoli, così, giusto per presentare le radici milanesi a quelle degli antenati cinesi, sotto qualche albero, magari proveniente dall’Himalaya”.

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