Siamo storie, siamo le storie a cui abbiamo appartenuto, siamo le storie che abbiamo ascoltato. Su ilLibraio.it un estratto dal nuovo, ambizioso romanzo di Maggiani

Siamo storie, siamo le storie a cui abbiamo appartenuto, siamo le storie che abbiamo ascoltato. E infatti Maurizio Maggiani, classe ’51, che torna in libreria (per Feltrinelli) con l’ambizioso Il Romanzo della Nazione, ascolta. Ascolta il fiume di voci che si leva nel canto della nazione che avremmo potuto essere e che non siamo, le voci di un popolo rifluito dentro l’immaterialità della memoria. Si insinua nelle pieghe della vita apparentemente ordinaria dei suoi personaggi e racconta. Racconta di una madre e di un padre che si spengono portando con sé, prima nella smemoratezza e poi nella morte, un mondo di certezze molto concrete: la cura delle cose, della casa, dei rapporti parentali. Rammenta la fatica giusta (e ingiusta) di procurarsi il pane e di stare appresso a sogni accesi poco più in là, nella lotta politica, nella piana assolata quando arriva la notizia della morte di Togliatti.  Racconta della costruzione dell’Arsenale Militare: un cantiere immenso, ribollente, dove accorrono a lavorare ingegneri e manovali, medici e marinai, ergastolani e rivoluzionari, cannonieri e fonditori, inventori e profeti, cuoche e ricamatrici, per spingere avanti destini comuni, avventure comuni, speranze in comune. Racconta di come si diventa grandi e di come si fondano speranze quando le speranze sono finite. Mai si era guardato negli occhi di un padre così a fondo per domandare una sorta di muto perdono, più grande della vita.

Il romanzo della nazione

Su ilLibraio.it un estratto dal romanzo
(per gentile concessione dell’editore)

Eppure, vorrei aver potuto parlare a mia madre prima che morisse. Non che avessi molte cose da dirle – era quello forse il momento di mettersi a fare dei discorsi? –, ma vorrei averle potuto almeno chiedere perché mi ha messo quella ridicola cuffietta in testa. Soprattutto quando ha chiamato il fotografo per farmi fare il ritratto che mi ha reso ridicolo a me stesso e ai posteri. Non per recriminare, da troppo tempo ormai quel che è stato è stato, ma per togliermi questa spina dal fianco una volta per tutte. Magari un capriccio? No. È un dubbio che ho da quando ero ragazzo. Secondo me mi stava curando le orecchie a sventola. In quel modo crudele. C’è un’altra foto, dove sono più piccolo e ho una palla in mano, una palla di pezza mi pare. Lì si vede molto bene che ho delle orecchie enormi, ben divaricate e rosee, una cosa imbarazzante, tipo elefantino Dumbo. Ce ne è un’altra invece dove sono più grande e sono vestito da marinaretto per una recita, si nota una coreografia marina sullo sfondo, e lì le orecchie a sventola riescono a farsi largo da sotto il cappello da marinaio, e sono ancora più imbarazzanti se è possibile. Ne devo aver avuto
coscienza. Dolente coscienza direi, perché nella fotografia del marinaretto ho decisamente l’espressione di chi non vorrebbe essere fatto così, ed essendo fatto così, almeno non essere lì, a subire l’umiliazione di una fotografia. In quelle con dizioni. E io, per me, pur lasciando da parte le fotografie, ho vaghi ma persistenti ricordi di un’infanzia ingombra di berrettucci e cappellini e cuffiette, estive e invernali, primaverili e autunnali. Ho fatto fatica a uscirne fuori, e non sono ancora del tutto convinto di essere un altro uomo e non quello che resta del marinaretto. Che in occasione della recita si è distinto per come ha cantato perfettamente intonato e col tempo giusto la canzoncina che gli era stata assegnata con spirito di generosa fiducia. Era una canzone molto patriottica, come si usava a quei tempi.

Ritorna, o marinar su la tua nave in mar;
tutte le trombe squillano tutte le luci brillano.
Su bello, o marinar, affrettati sul mar

Queste cose non si dimenticano. Avrei voluto chiederle di questo. Anche se parrebbe una cosa del tutto secondaria, persino irrispettosa con una madre lì sul letto di morte, avrei voluto dirle: Non ti piacevo, vero? Cercavi solo di darmi una sistemata, vero? Perché se è così, io sono contento. È tutto a posto. Visto che la tua contrizione, madre, non ha origine da ciò che sono divenuto nel tempo – nel tempo che, con tutto il rispetto, tu non hai governato – ma da ciò che sono sempre stato, per come ero fatto di partenza. E questo è normale, si capisce. Nemmeno io mi sono mai sembrato un granché. Mi sarebbe piaciuto venire a conoscenza di questo particolare, prima che se ne andasse. Di più, mi è ancora oggi necessario un chiarimento. Per colmare una lacuna. Non che al Romanzo della Nazione gliene possa fregare niente di come son fatte le mie orecchie, ma io, forse, avrei potuto fondarla una nazione. Essere io stesso un capoverso del suo romanzo, madre, metti anche solo una riga. Ogni uomo, madre, è un futuro costruttore di nazioni, se solo non parte così svantaggiato, s’intende. Se, magari, non si palesa al mondo con una cuffietta in testa, con una cuffietta allacciata ben stretta sotto il mento. Questo è provocare il Destino, invocarlo, convocarlo, mettergli in mano la leva della ghigliottina.
Ma mia madre è vissuta con la vocazione di una distruttrice di nazioni. Lo so, me lo ha detto. Non in punto di morte, ma in un’altra occasione un paio di settimane prima, poco dopo che aveva preso possesso del suo dominio ospedaliero…

(continua in libreria…)

© Giangiacomo Feltrinelli editore

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