Sullo scrivere romanzi tratti da storie vere e, allo stesso tempo, sul senso di raccontare cose già raccontate da altri (ovvero, perché esistono argomenti, vedi tragedie come Auschwitz, su cui ha senso scrivere e riscrivere libri) – Su ilLibraio.it l’analisi dello scrittore Andrea Tarabbia (in libreria con il suo nuovo romanzo, “Il giardino delle mosche”): “Ho perso il conto di quanti siano, nella mia vita di lettore, i libri che ho letto che parlano della stessa cosa…”

Ho perso il conto di quanti siano, nella mia vita di lettore, i libri che ho letto che parlano della stessa cosa. Esiste infatti un pugno di argomenti che catturano il mio interesse in modo febbrile: l’Olocausto, per esempio, o lo stalinismo o, ancora, le avventure per mare; esistono periodi che considero “miei”: vorrei aver letto tutto ciò che è stato scritto nei primi trent’anni del Novecento, per esempio – e non parlo soltanto di letteratura, ma anche di psicoanalisi, di teoria musicale, di fisica… -, e continuo a credere che il momento più fulgido della nostra letteratura sia quel pugno di anni che va dal dopoguerra agli anni Settanta, quando a scrivere c’erano i Volponi, i Parise, le Morante.

Allo stesso tempo, ci sono dei luoghi del mondo che sento più vicini, più “miei” di altri: la Russia, soprattutto in quel secolo miracoloso e disperato  che va dalla metà dell’Ottocento alla Seconda guerra mondiale, la Germania di inizio Novecento, la Polonia e l’Ucraina dei grandi scrittori yiddish, alcuni dei quali travolti dal nazismo. E così via. Mi rendo conto, se penso al mio immaginario di lettore, che, benché mi consideri e sia a tutti gli effetti onnivoro, l’orizzonte dei miei amori reali è ristretto. Credo si tratti di una cosa abbastanza comune: ognuno si sceglie il proprio clima culturale, il proprio tempo e il proprio passo.

E tuttavia queste considerazioni, se valgono qualcosa, hanno delle conseguenze: ho letto decine, centinaia di volte la stessa storia. In quanti dei libri che amo c’è una nave che fa naufragio? In quanti c’è un rastrellamento in un ghetto o in un villaggio? In quanti, ancora, ci sono simbologie cristiane e omicidi raccontati dal colpevole e ossessioni e violenza? Soprattutto, quanti di questi libri si basano su fatti realmente accaduti?

Non so rispondere con precisione. So però, a costo di sembrare banale, che un buon romanzo che contiene uno o più di questi elementi e che ha un retroterra storico ha in partenza una grande probabilità di diventare uno dei miei libri preferiti; so anche che, se un romanzo di questo tipo è per qualche motivo brutto, non solo non leggerò mai più nient’altro del suo autore, ma proverò nei suoi confronti qualcosa di più che delusione: una rabbia sorda – come se il suo libro fosse un affronto personale fatto a me.

Così, si può dire che ogni cosa che leggo sia in realtà qualcosa che rileggo. Leggendo un libro per la prima volta, mi capita di provare la piacevole sensazione di averlo già letto, di trovarmi su un territorio che io e il libro consideriamo nostro. Di avere qualcosa in comune con lui.

È per questo, forse, che più invecchio più mi sento lontano da storie di pura invenzione, che non hanno un legame diretto con la Storia e con certe epoche: esse non mi parlano, non mi presentano quel territorio comune che è diventato passo dopo passo il motivo fondamentale delle mie letture.

Questa sensazione (che non è una legge: fortunatamente continuo a innamorarmi di libri che all’apparenza non hanno nulla per piacermi) da qualche tempo coinvolge anche l’altra metà di me: lo scrittore. Sempre meno spesso mi scopro a immaginare storie pure: piuttosto, il mio lavoro sta diventando quello di cercare qualcosa di raccontabile dentro la Storia. Prendo personaggi realmente esistiti o fatti realmente accaduti e vi cerco dei “buchi”, dei momenti in cui nessuno conosce davvero che cosa sia successo: è lì che si inserisce la mia immaginazione di scrittore. Ma è un’immaginazione per così dire legata, ancorata al rispetto della verità storica, dei documenti. Mi capita perciò di scrivere storie su cui qualcun altro ha già scritto. In qualche modo, insomma, riscrivo, provando a gettare una luce nuova, insolita, sulle cose. È il caso del mio ultimo libro, un romanzo che ripropone la vicenda terribile di Andrej Čikatilo, il più feroce serial killer dell’epoca sovietica: su di lui sono stati scritti libri e girati film (da Evilenko a Child 44, per citare i più noti), eppure mi sembrava che ci fosse ancora qualcosa da dire, che si poteva raccontare la sua storia una volta ancora, abbandonando commissari, indagini, sparatorie e entrando nella sua testa, studiandolo da dentro. È così che è nato Il giardino delle mosche. Perché, per me, esistono storie che vanno raccontate, e poi raccontate di nuovo, e ancora e ancora.

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L’AUTORE – Lo scrittore Andrea Tarabbia, classe ’78, torna in libreria con il romanzo Il giardino delle mosche (Ponte alle Grazie): la storia, raccontata da lui medesimo – anche se non tutto è quello che sembra – di Andrej Romanovič Čikatilo, il “mostro di Rostov”: un uomo apparentemente normale che, dal 1978 al 1990, uccise e mutilò, in alcuni casi mangiando parti dei loro corpi, circa 56 persone…
Tra i libri di Tarabbia, La calligrafia come arte della guerra (Transeuropa, 2010) e Il demone a Beslan (Mondadori, 2011)

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