“Ogni abbandono è doloroso. È una porta che si richiude alle spalle, il clic di un interruttore spento, è un ‘no’ pronunciato con decisione o soltanto sussurrato, urlato o perfino semplicemente sottointeso. E gli oggetti che sopravvivono a questo ‘no’ conservano almeno l’ombra dell’ex partner e sono capaci di evocare una miriade di sentimenti…”. Su ilLibraio.it la scrittrice Simonetta Tassinari ci parla del “Museo delle Relazioni Finite”

A Los Angeles è stata aperta al pubblico, da qualche mese,  un’ innovativa esposizione permanente: il Museum of broken relationships, ovvero il museo delle relazioni interrotte (di cui ci siamo già occupati qui, ndr). L’ideatore, un privato, lo ha modellato sull’esempio di un museo di  Zagabria nel quale, ormai da anni,  si conservano cimeli come abiti da sposa, doni tra fidanzati e  oggetti, in qualche modo, riferibili a una separazione e a sofferenze amorose.

Perché, naturalmente,  ogni abbandono è doloroso. È una porta che si richiude alle spalle, il clic di un interruttore spento, è un “no” pronunciato con decisione o soltanto sussurrato, urlato o perfino semplicemente sottointeso. E gli oggetti che sopravvivono a questo “no”  conservano almeno l’ombra dell’ex partner e sono capaci di evocare, con la loro nuda presenza – ogni reperto, per così dire, è rigorosamente anonimo – una miriade di sentimenti: rimpianto e solitudine, sgomento e difficoltà a riprendere il proprio cammino.

Sono urne votive a un amore perduto e una testimonianza della labilità di promesse e giuramenti, schegge di vita, trasfigurazioni di elementi autobiografici e, insieme, un invito a diffidare di regali talora di valore e di spicco, regali che non hanno salvato alcunché, non hanno unito, non hanno avvinto, materia inutile e bruta, pur nella sua qualità e nel suo prezzo, dietro i quali si scorgono le sagome degli vecchi amanti che, ormai, vagano nel mondo per conto loro.

È probabile che buona parte dei donatori si sia sbarazzato di scomodi, irritanti e spesso anche odiosi residui di ciò che non è più seguendo una specie  terapia,  soprattutto se la relazione si è spezzata non per propria colpa (difficile che sia il fedifrago a recarsi in museo per la consegna ). Eppure l’atto con cui si tenta di allontanare le prove di un legame andato a rotoli  nasconde – chi può dirlo? – forse  anche un grido d’aiuto, un desiderio di condivisione e di dialogo con qualcuno di cui non si conosce il volto, e perfino l’inconfessata  aspettativa che l’ex partner capiti casualmente davanti alla vetrina dove si conserva quel che per lui, o per lei soltanto, possiede il giusto significato, e, chissà…

Cézanne, il pittore degli oggetti, avrebbe certamente ritratto cornici e camicette, pipe e anelli, diari e braccialetti  cavandone l’anima più riposta e suggestiva, benché  di talune reliquie non si riesca a individuare il sesso di riferimento, come nel caso di macchine fotografiche, cartoline, quadri. Ma non ha alcuna importanza; possono essere percepite nella loro pienezza da entrambi i sessi, con la medesima forza. Sono scatole di emozioni che trascendono la singolarità e ci fanno  avvertire come nostra la sofferenza altrui. Non ci lasciano indifferenti perché non siamo mai separati dagli altri e dalle loro angosce, e in ogni oggetto  avvertiamo la medesima umanità malgrado le diverse circostanze in cui ne è stato generato il  valore simbolico. In fondo il Museum of broken relationships è il capolinea di un faticoso viaggio, la fine di  un processo, anche culturale, di cui implicitamente si intravede un seguito: la dimenticanza che seguirà lo sgomento e il dolore, e la rinascita di quella speranza che, per citare Schopenhauer, come il sole tramonta da un lato per poi risorgere  dall’altro.

Anche questo, come tutti i musei, è un luogo di pace. Un luogo dove, nell’asetticità delle vetrine, la tenuità delle luci, il silenzio dei visitatori, la vergogna, il dolore e il risentimento dei donatori si stemperano. E di musei simili, sostanzialmente delle illusioni perdute, se ne potrebbero creare, in tempi brevi e con poca spesa, parecchi altri.Il Museo dei manoscritti che nessun editore ha voluto pubblicare, per esempio. Quello dei progetti mai approvati, un altro, ancora, dei curriculum  mai aperti. Musei che abbiano il compito di suggerire che non sempre occorre vincere per lasciare un segno di sé, condividere, esserci.

L’AUTRICE – Nel 2015 Simonetta Tassinari ha pubblicato La casa di tutte le guerre, romanzo ambientato in Romagna nell’estate 1967.
Il 6 ottobre il suo ritorno in libreria, sempre per Corbaccio, con La sorella di Schopenhauer era una escort. Sarà un libro per i genitori, per i ragazzi, per chi non è genitore e non è neanche un ragazzo, per i curiosi, per chi vuole sorridere, e leggere, della scuola italiana.  Un ritratto divertente della generazione smartphone-munita, che va alla radice del bisogno di fingersi più bravi di quel che si è..
L’autrice è nata a Cattolica ed è cresciuta tra la costa romagnola e Rocca San Casciano, sull’Appennino. Vive da molti anni a Campobasso, in Molise, dove insegna Storia e Filosofia in un liceo scientifico. Ha scritto sceneggiature radiofoniche, libri di saggistica storico- filosofica e romanzi storici.

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