Dopo l’ennesima attentato di Nizza, “la guerra asimmetrica scatenata dall’islamismo radicale ha fatto un passo in avanti…”. Su ilLibraio.it il punto di vista del filosofo Simone Regazzoni, che riflette sul terrorismo islamista, “in cui il discorso religioso agisce come un brand”. E che parla di “una guerra in cui parole, narrazioni e immagini hanno una portata capitale…”

C’è ancora chi, dopo l’ennesimo attentato, rifiuta di accettare il fatto che siamo in guerra. Per questioni ideologiche, per stupidità, perché pensa che continuare a ripetere “non dobbiamo cambiare le nostre vite” possa esorcizzare il fatto che le nostre vite sono già cambiate.

E’ tempo di elaborare il trauma: nulla, oggi, è più come prima. E quello che ci attende domani non è la fine di un incubo: sono nuovi attentati. Occorre cominciare a dirlo. Per non alimentare il terrore spaesante che ci paralizza. Per cominciare a coltivare un realistico, sano senso di paura.

Dobbiamo cominciare ad avere paura. Molta. La paura è indispensabile per non soccombere di fronte alle minacce e per coltivare virtù di resistenza come il coraggio. Dobbiamo, dunque, riconoscere che siamo tutti in guerra. Tutti obiettivi di una guerra scatenata dal terrorismo islamista. Tutti attori impegnati a combatterla, questa guerra: con i nostri comportamenti, le nostre parole, le nostre idee. Nessuno può chiamarsi fuori. L’opzione pacifista in questa guerra in atto non è concessa: non è concessa dalla natura stessa della guerra in atto.

Un’iperbole? No, perché questa guerra in atto opera al di là delle rassicuranti opposizioni tra militare e civile, tra guerra e pace, tra teatri di guerra e teatri di pace, tra armi e oggetti. Siamo in guerra, al di là della guerra e della pace. Ma occorre aggiungere che, dopo Nizza, la guerra asimmetrica scatenata dall’islamismo radicale ha fatto un passo in avanti. Siamo al punto estremo dell’asimmetria. Siamo di fronte un terrorismo molecolare in cui il discorso religioso agisce come un brand.

Chi dice che questo tipo di terrorismo non ha nulla a che fare con la religione non coglie il cuore della questione terroristica, oggi, e si priva, così, degli strumenti per combattere il terrore in nome del politicamente corretto. Un lusso che, francamente, non possiamo permetterci in una guerra in cui parole, narrazioni e immagini hanno una portata capitale. Dire che il terrorismo è di matrice islamista radicale non significa dire che c’è uno scontro in atto con l’Islam, bensì riconoscere che c’è in atto uno scontro interno all’Islam e, al contempo, uno scontro tra una interpretazione integralista dell’Islam e le democrazie occidentali. Dire che l’Islam non c’entra con questo scenario bellico è una pericolosa forma di denegazione che non aiuta nessuno: né l’Islam moderato, né le democrazie occidentali.

L’islamismo radicale dell’IS è un brand con uno storytelling. Chiunque può diventare attore in questa narrazione del terrore, che non ha nulla a che fare con il nichilismo, perché promette la pienezza di senso di un universo perfettamente strutturato e, al contempo, la salvezza per chi a questa narrazione aderisce.
Per essere protagonista dello storyrelling del terrore, nel punto estremo dell’asimmetria bellica, non è più richiesta né preparazione specifica, né predisposizione, né addestramento, né intenzione. Serve un atto. Un passaggio all’atto. Da qui la superficialità sconcertante delle analisi dei terroristi nei termini di “autentica” o “strumentale” adesione al discorso del terrorismo di matrice religiosa: “era un vero terrorista islamico”, “no, era solo un disperato, un pazzo”. È la natura stessa dello storytelling del terrore a rendere inservibili queste categorie.

Qualcuno potrebbe obbiettare che tutto questo non ha più a che fare con la religione: questo sarebbe solo marketing del terrore. Analisi ingenua. Per due ragioni. Perché il marketing, da un lato, ha molto a che fare con la religione; e perché, dall’altro, l’islamismo radicale non si secolarizza, ma si reinventa incorporando strategie all’opera nel discorso pubblicitario occidentale e contaminando la propria narrazione con le narrazioni audiovisive occidentali, dal cinema alle serie tv. In questo senso il terrorismo islamista radicale è iper-arcaico (wahabita) e postmoderno, è interpretazione integralista del Corano e spot, film catastrofico, dell’orrore.

Oggi noi occidentali non abbiamo ancora risposte adeguate a questa nuova, potentissima invenzione del Male che ha la forma di un’epidemia dell’immaginario che rischia di condurci sull’orlo di una guerra civile globale. Dobbiamo combattere una guerra: essere consapevoli che i terroristi sono nemici non criminali. Ma al contempo non possiamo limitarci a combattere una guerra. Oggi noi dobbiamo inventare una nuova e inedita forma guerra.

L’AUTORE – Simone Regazzoni, filosofo e scrittore nato a Genova nel ’75, ha pubblicato numerosi libri, tra cui Abyss, thriller filosofico (Longanesi-Tea), Sfortunato il paese che non ha eroi (Ponte alle Grazie) e Pornosofia. Sempre con Ponte alle Grazie nel 2o13 ha pubblicato Stato di legittima difesa. Obama e la filosofia della guerra al terrore.

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