Dopo il successo della “Trilogia del Male”, il commissario Balistreri, nato dalla fantasia di Roberto Costantini, torna nel thriller “La moglie perfetta”: su ilLibraio.it un capitolo

Nel maggio del 2001, a Roma, due coppie, il professore italoamericano Victor Bonocore e la moglie Nicole Steele, il pubblico ministero Bianca Benigni e il marito Nanni. Due matrimoni come tanti, a volte felici, a volte meno. Tra loro una ventenne pericolosa, Scarlett, sorella di Nicole. Intorno, la terra di mezzo del Sordomuto e del Puncicone, gli appalti pubblici, il gioco d’azzardo, l’usura e la morte atroce di una ragazza, Donatella. Sembra essere l’ennesimo atto di violenza patito da una donna per mano di un uomo violento, l’assassino viene scoperto e giustizia è fatta. O forse no? Quando viene ucciso Victor Bonocore, Michele Balistreri dirige la terza sezione della squadra mobile e indaga insieme al pm Bianca Benigni. La miscela è esplosiva, le modalità di conduzione dell’indagine contro le sorelle Steele sono fuori dai confini della legge e l’esito è disastroso. L’arresto di Scarlett e Nicole incrina le relazioni tra Italia e Stati Uniti. Tutto finisce male. Nel 2011 una rivelazione inattesa spinge Balistreri a riaprire quel caso rimasto senza colpevoli. Ma se non è tardi per la giustizia, forse lo è per l’amore e per la vita. O forse no.

Dopo il successo della Trilogia del Male, il commissario Balistreri, nato dalla fantasia di Roberto Costantini (Tripoli, 1952), ingegnere, consulente aziendale, oggi dirigente della Luiss, torna nel thriller La moglie perfetta (Marsilio).

Su ilLibraio.it un estratto
(per gentile concessione di Marsilio)

Dagli appunti del dottor Giovanni Annibaldi

Il matrimonio può, nel migliore dei casi, solo approssimarsi alla perfezione. È a questo che i miei pazienti non vogliono rassegnarsi. È escluso dalla logica e dalla statistica che la persona che ci sta accanto per una vita sia quella più adatta a regalarci un’esistenza davvero piena, che sia il massimo per noi. Perché ci si sposa sempre troppo presto o su premesse sbagliate. C’è chi si sposa molto giovane e non conosce nemmeno se stesso. C’è chi si sposa più maturo ma lo fa sulle ceneri di ciò che non ha funzionato in passato, cercando persone diverse da quelle che lo hanno fatto soffrire. C’è chi si sposa perché è arrivato il momento di farlo, e non perché ha trovato la persona giusta. Con queste premesse è ovvio che il meglio che si possa ottenere nel tempo sia l’affetto e la stima reciproca. Di più è impossibile.

E l’amore?

Provo a spiegare ai miei pazienti che l’amore è esattamente questo, affetto e stima reciproca a lungo termine.

E l’altro amore, quello vero, dottore? Quello che ci fa battere il cuore?

Cosa dovrei dire? Che quello esiste, è là fuori da qualche parte la persona perfetta per te, ma è meglio non incontrarla mai. Perché la nostra educazione, le nostre regole, i vincoli che ci siamo creati col tempo sono una gabbia dorata. Uscire da quella gabbia è possibile solo a prezzo di un dolore troppo grande da infliggere o da subire e non siamo né forti né deboli abbastanza da andarcene e dimenticare. Saremmo costretti a rinunciare, e allora è meglio risparmiarsela questa esperienza.

Il marito perfetto e la moglie perfetta sono pronti a qualunque cosa pur di salvaguardare quell’unione imperfetta ma preziosissima.

Anche a uccidere.

Perché Nietzsche sbagliava: l’unione è al di là del bene e del male, non l’amore.

Lunedì 30 aprile 2001

Balistreri

La prima volta, luglio 1982, fu il greto del Tevere. E poi, in quasi vent’anni nella polizia, posti di ogni genere: dalle discariche alle ville di lusso. Lo aveva scritto Chandler: in fondo cosa cambia quando sei morto?

Ma una cosa l’ho imparata in tutto questo tempo.

È il prima che cambia, non il dopo.

Ho visto la serenità negli occhi di chi è morto per un colpo alla tempia inatteso o avvelenato nel sonno. Ho visto la paura di chi si è trovato improvvisamente davanti una pistola o un coltello sapendo che un minuto dopo sarebbe crepato. E ho visto quella inaccettabile, tranquilla rassegnazione, quasi il sollievo, di chi è morto dopo aver attraversato l’inferno.

Guardo gli occhi di Donatella Caruso, morta a ventun anni su questa spiaggia, e so che era felice di morire per farla finita.

«Le fotografi gli occhi» ordino al tecnico della Scientifica.

Poi mi rivolgo al medico legale di turno.

«E poi lei glieli chiuda.»

Ostia dista mezz’ora circa da Roma. Popolosa d’inverno, sovrappopolata d’estate per le sue spiagge, gli stabilimenti balneari e i locali con le discoteche all’aperto.

Donatella Caruso è stata lì ieri sera, a ballare sulla sabbia al Beach Dance con centinaia di coetanei, approfittando del primo fine settimana dal clima estivo. Questo lo sappiamo già con certezza dall’amica con cui era e che verso le tre di notte l’ha cercata per tornare insieme a casa, senza trovarla. Il cellulare risultava spento e alla fine la ragazza si è fatta coraggio, ha chiamato casa di Donatella e il padre ha avvertito la polizia di Ostia. Il corpo è stato ritrovato all’alba in uno spogliatoio dello stabilimento Due Remi, a cinquecento metri dalla discoteca dalla quale la Caruso era sparita. E la polizia di Ostia ha avvertito subito la mia sezione, la Omicidi.

«Chi è il pm di turno?»

L’ispettore Antonio Coppola, ultraquarantenne napoletano dalla tagliente ironia di meridionale che si sente discriminato, era già alla Omicidi quando me l’hanno affidata. I colleghi lo hanno soprannominato Nano, ma questo non soffoca la galanteria sfrenata che gli ha già causato due divorzi e mi costringe a tenerlo lontano dalle indagini in cui sono coinvolte donne troppo belle, anche ora che è felicemente sposato, per di più con un figlio.

«È Ezio Conti, l’ho avvertito io. È lui di turno ma non viene. Ha detto che si fida di lei e di fargli sapere quando torna a Roma. Uno sfaticato cronico…»

Per fortuna la maggior parte dei pm è così, non viene sulla scena del delitto, aspetta i rapporti, dà istruzioni vaghe che posso piegare alle mie modalità di indagine. Ezio Conti ne è l’esempio perfetto. Ma non mi fa piacere che il Nano si esprima in quel modo su un pubblico ministero.

«Non è affar tuo, Coppola. Preferisci restare qui con la Scientifica e il medico legale per raccogliere le prime informazioni o andare a Roma ad avvertire i genitori della ragazza prima che lo sappiano dalla radio?»

Impallidisce visibilmente.

«Preferisco restare qui, dottore. Se vuole vado anche a interrogare il personale della discoteca e dello stabilimento, li ho già fatti chiamare.»

«Va bene. Senti anche l’amica con cui era venuta a ballare la ragazza. Ci vediamo più tardi in ufficio.»

Lui mi strizza l’occhio.

«Comunque, chillo è ’nu sfaticato.»

Non posso picchiare un nano. Oltre tutto così simpatico.

Nanni

La donna piange. Mormora qualcosa.

«È colpa mia se mi hai tradita, amore, ti avevo lasciato troppo solo.»

Il marito annuisce.

Io li guardo, seduti davanti a me, ma non li ascolto già più. Sono solo le nove e cinque, ho di fronte i primi pazienti della mattina, eppure sono già stufo.

Certo, ascoltare le coppie è il mio lavoro. Ricevo ogni giorno, tranne la domenica e il sabato pomeriggio, nel mio studio all’Eur, periferia sud di Roma, in un’isolata villetta con giardino e ingresso auto sul retro. Studio scelto da Bianca, come i mobili e come quasi tutto il resto nella mia vita.

In alternativa allo psicologo avrei potuto fare il venditore o il politico, che poi sono la stessa cosa. Avrei anche il talento, ma farmi pagare per ascoltare è molto più semplice. Coppie che si siedono davanti a me e mi raccontano le stesse varianti degli stessi problemi. Illusioni amorose che sono diventate gabbie. Tanto più frustranti perché sono loro a chiudervisi dentro e a gettare via la chiave.

Sopportano i tradimenti, le liti, a volte le botte. Non si arrendono a una tristezza quotidiana che a volte negano persino di fronte a se stessi. Sanno che è troppo tardi per uscire dalla gabbia, che è meglio restare lì dentro, con chi si conosce. Anche se l’amore di un tempo è sbiadito nell’affetto, quando va bene, il sesso, se c’è, è una routine, il futuro è la difesa del passato, e lasciare tutto così com’è sembra il modo per soffrire di meno in attesa del giorno in cui la vita finisce. Vengono da me per ritrovare l’amore perduto tra loro, pur sapendo benissimo nel fondo del cuore che l’amore esiste ma non va cercato lì. Vengono da me perché hanno paura di fare l’unica cosa che ovviamente potrebbe fargli trovare di nuovo l’amore, rischiare, mollare tutto e cercarlo altrove.

Ma io so che esiste una sola ricetta per aiutarli davvero: fargli credere che possono farcela, e che fuori il mondo è troppo crudele.

Li ascolto e ogni volta penso al mio matrimonio, che dopo dodici anni ancora tiene, come i motori delle auto di una volta. Certo, con Bianca le divergenze di vedute ci sono, ma non degenerano mai in vere liti. Al peggio si fa come dice lei e a me va bene così, perché in cambio lei mi dà tutto. Serenità, conforto, persino il sesso, fatto meno di passione e più di tenerezza.

Ma ci amiamo ancora?

Una domanda crudele, insensata, autolesionista. La domanda che tormenta gli illusi, i romantici: i miei pazienti.

Una domanda inutile.

La vita non può essere fatta di montagne russe. E Bianca è quella che spiana le vette e riempie le vallate.

Balistreri

C’è Roma e Roma. Ci sono i condomini di lusso della Camilluccia, le belle case d’epoca dei Parioli e di Prati, le ville e i grattacieli scintillanti dell’Eur. Se conti qualcosa, perché sei ricco di famiglia o hai un buon lavoro o sei bravo a rubare, abiti in un posto del genere. Gli altri, invece, vivono in posti simili a quello in cui abitano i Caruso. Esteticamente meno gradevoli ma molto più veri.

La villetta in borgata Ottavia, tra la ferrovia e un carrozziere, è già sintomo di un discreto successo economico se non di emancipazione sociale. Un giardinetto ben curato, infissi dipinti, colori tenui, mobili fatti da un falegname amico.

Suono e mi apre la porta un’adolescente sui diciotto anni, la copia perfetta di Donatella Caruso, il volto teso dall’apprensione. Le mostro il tesserino identificativo generico, quello che dice solo polizia e non sezione Omicidi.

«Sono Michele Balistreri, ci sono i tuoi genitori?»

«Sì, io sono Alessandra, la sorella di Donatella.»

Mi fa strada in un corridoio, si sentono delle voci e in sottofondo la tv. Saranno amici e parenti, tutti in attesa di notizie. Devo sbrigarmi, prima che sia il telegiornale ad annunciare a tutta la comunità riunita che la figlia, sorella, nipote, amica è stata picchiata, stuprata e strangolata.

Quella prima volta, quasi vent’anni fa, quando trovai i genitori di Elisa Sordi davanti al mio ufficio, mi limitai a dire mi dispiace e a chiudere la porta sui loro volti in disfacimento. Sono invecchiato da allora. Avevo poco più di trent’anni e oggi ho passato i cinquanta. Ma il tempo trascorso non mi ha cambiato. Tutte le sigarette, il whisky, le donne di cui ho consumato il corpo e cancellato l’anima non sono serviti né a seppellire il passato né a farmi desiderare un futuro. Non siamo affatto artefici

del nostro destino, recitiamo una parte insignificante in qualcosa che non comprendiamo, e le nostre grandi tragedie individuali non contano più della formica che ho appena calpestato attraversando il giardino.

Faccio solo un lavoro. Cerco assassini finché li catturo. Non so consolare, non so capire il dolore di un padre e di una madre. Per questo oggi mi è più facile guardarli negli occhi mentre dico loro le stesse parole che dissi nel 1982 ai genitori di Elisa.

«Mi dispiace.»

(continua in libreria…)

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