Un approfondimento tutto dedicato al mondo, affascinante e spesso poco raccontato, delle traduzioni…

Essere traduttore significa ben di più che rendere comprensibile un testo: lo sanno bene i tanti studiosi che si sono confrontati su questo tema molto attuale, nel congresso I traduttori come mediatori culturali (Bari, 27-30 agosto 2014); i contributi, ora raccolti in un utilissimo e variegato volume eponimo uscito per Franco Cesati Editore lo scorso anno, hanno stimolato la nostra curiosità. Abbiamo intervistato uno dei curatori, Sergio Portelli, Professore associato di Translation Studies e Terminologia all’Università di Malta.

traduttori

Cosa significa essere “mediatori culturali” e non solo traduttori?
“Essere mediatori culturali significa andare oltre l’aspetto meramente linguistico. Significa trasporre il testo da una cultura all’altra per permettere al lettore nella cultura d’arrivo di accedere il più possibile all’atmosfera, al significato e all’effetto del testo originale. Le culture non sono perfettamente sovrapponibili, perciò il traduttore deve trovare nella lingua di arrivo il modo per rendere gli elementi che caratterizzano il testo di partenza. Ciò non significa addomesticare l’originale, nel senso di eliminare ciò che è estraneo alla cultura d’arrivo. È un processo delicato che costituisce la sfida che il traduttore deve affrontare, nel rispetto sia del testo di partenza sia del lettore nella cultura d’arrivo”.

Quali caratteristiche deve avere una traduzione fedele?
“Il passaggio da una lingua all’altra e da una cultura all’altra non può avvenire senza conseguenze. Un’assoluta fedeltà letterale può creare un effetto straniante per il lettore nella cultura d’arrivo. Tale straniamento magari non è presente nel testo di partenza, per via della comunanza culturale tra l’autore e i lettori dell’originale, perciò nell’atto pratico questo tipo di fedeltà comporterebbe un ‘tradimento’ del testo di partenza. Oggi per ‘fedeltà’ intendiamo piuttosto un’attenzione complessiva per tutti gli aspetti del testo, e il traduttore cerca di rendere sia il significato sia l’effetto dell’originale nella lingua d’arrivo. Bisogna comunque sempre tener presente che una traduzione è nel contempo una rilettura e una riscrittura, e non potrà mai essere una perfetta trasposizione dell’originale”.

Fedeltà e creatività nell’opera traduttiva: sono due estremi che non possono incontrarsi, un obiettivo da perseguire, o realtà che già si compenetrano?
“Nella traduzione letteraria, fedeltà e creatività sono strettamente intrecciate. Non esiste un unico modo per tradurre un testo, ed è per questo che tante opere importanti vengono tradotte più volte nella stessa lingua. Il traduttore lascia un’impronta sul testo di arrivo, e da lettori dobbiamo farcene una ragione. Una buona traduzione ci fa avvicinare all’originale e alle emozioni che l’autore vuole trasmetterci, ma lo fa comunque attraverso una trasposizione culturale e linguistica in cui qualcosa inevitabilmente andrà perduto. Tuttavia, come ha giustamente osservato la traduttrice Edith Grossman, l’unica alternativa per i lettori monoglotti sarebbe l’impossibilità di avvicinarsi ai grandi capolavori delle letterature straniere. E questo, per chi ama la letteratura e la lettura in generale, è impensabile”.

È preferibile per un traduttore avere rapporti con l’autore, o il distacco dalla persona aiuta a concentrarsi sull’opera?
“Dipende da tanti fattori. Può capitare che l’editore o l’autore esigano che il traduttore lavori in stretto contatto con l’autore stesso. Magari è lo stesso traduttore che vuole farlo per avere delle delucidazioni sulle parti più oscure di un testo. I traduttori di Umberto Eco, ad esempio, lavoravano in stretto contatto con lui perché le sue opere sono caratterizzate da tanti riferimenti intertestuali, spesso molto difficili da cogliere persino per il lettore italiano. In altri casi, l’autore potrebbe addirittura essere un ostacolo per il traduttore. Ci sono casi in sui l’autore cerca di imporsi sul traduttore pur non conoscendo la cultura d’arrivo, pregiudicando così il processo di mediazione culturale che solo il traduttore è in grado di compiere”.

Il fatto che l’autore dell’opera conosca anche la lingua d’arrivo è un aiuto, perché offre occasioni di confronto, o un motivo di rallentamento o talvolta di blocco per il traduttore?
“Nel campo della traduzione, così come in ogni altro, un confronto libero e costruttivo dà sempre i risultati migliori. Se invece il confronto viene subìto dal traduttore, la traduzione ne risente. Il traduttore deve approfittare di ogni opportunità e di ogni situazione che possa contribuire a migliorare il suo lavoro, perciò non deve temere un autore animato da buone intenzioni”.

Si discute molto e da anni sulla presenza di note del traduttore a piè di pagina: a Suo parere, testimoniano la precisione del traduttore, l’impossibilità di rendere sfumature presenti solo nella lingua d’origine e/o un parziale fallimento dell’operazione traduttiva?
“Per quanto riguarda la traduzione di opere letterarie, nelle mie traduzioni ho sempre evitato le note a piè di pagina. Ritengo che scegliendo di leggere una determinata opera in traduzione, il lettore accetta di compiere un viaggio di conoscenza e di scoperta attraverso l’opera tradotta. Le note a piè di pagina distraggono dal testo, rompono il ritmo e guastano l’effetto. Il traduttore non è un insegnante o un divulgatore, ma un mediatore. Per definizione, un mediatore non può essere autoreferenziale, ma deve facilitare il dialogo tra altri interlocutori. Di conseguenza, nella mia opinione, porre troppa enfasi sulla traduzione attraverso le note a piè di pagina è fuori luogo. L’unica eccezione potrebbe essere quando ci si trova di fronte ad un gioco di parole che magari ha una particolare importanza nel racconto. Se non lo si può rendere nella lingua di arrivo, come spesso accade, un riferimento a piè di pagina aiuterebbe il lettore a comprendere il brano in questione che altrimenti risulterebbe incomprensibile. In altre situazioni, opterei per le note di chiusura che il lettore può facilmente decidere di ignorare”.

Molto spesso i titoli dei romanzi subiscono notevoli rimaneggiamenti nella traduzione: questo a Suo parere, è dettato solo da motivi commerciali o punta anche a venire incontro ai gusti dei lettori di un diverso Paese?
“I titoli sono spesso molto difficili da tradurre. Penso al romanzo di David Pelzer A Child called It. La mancanza di un pronome neutro che corrisponda al significato e alla connotazione spregiativa dell’inglese ‘it’ riferita ad un bambino rende di fatto la frase intraducibile in italiano. In questo caso, il titolo scelto fu Non picchiarmi più, che sposta la prospettiva da quella del padre violento a quella del bambino maltrattato. A differenza del cinema, dove prevale sempre più l’uso del titolo inglese, nella letteratura si tende a dare un titolo in italiano, probabilmente perché i lettori sono generalmente più sensibili alla lingua che non gli spettatori cinematografici”.

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Sono pensabili oggigiorno traduttori lontani dalla cultura del Paese della lingua di partenza?
“Direi di no. I traduttori non devono essere solo bilingui, ma biculturali. Il traduttore Clifford Landers dice che essere biculturali significa essere in grado di percepire i segni, i simboli e i tabù in entrambe le culture, di identificare i segnali nel subconscio e di partecipare all’inconscio collettivo. In altre parole, bisogna essere in grado di cogliere il non-detto in entrambe le realtà culturali. Ciò si può fare solo se si ha un contatto continuo e profondo anche con la cultura di partenza”.

Negli ultimi anni molti lettori preferiscono leggere le opere in lingua originale, per non dover aspettare i tempi di traduzione, ma spesso anche per una forma di disincanto circa l’onestà della traduzione. Secondo Lei, è possibile immaginare un futuro in cui si renderà superflua la traduzione dall’inglese?
“Oggi viviamo in un clima di diffidenza generalizzata. Non ci fidiamo dei politici, dei giudici, dei giornalisti, degli insegnanti e nemmeno dei traduttori. Ciò nonostante, tali categorie rimangono essenziali per la nostra convivenza civile. Nel caso dei traduttori, il loro ruolo cambia a seconda delle trasformazioni sociali, culturali ed economiche che si verificano nel tempo, ma le statistiche ci dicono che paradossalmente la globalizzazione li ha resi più che mai indispensabili. L’industria della traduzione cresce di anno in anno, e i corsi di formazione per traduttori sono sempre più popolari e numerosi. La conoscenza delle lingue straniere, magari imparate a scuola o in qualche corso serale, non fa venire meno la necessità di una mediazione culturale per coloro che non hanno una conoscenza approfondita delle altre culture. In generale, le persone imparano le lingue per poter comunicare quando viaggiano, ma le competenze linguistiche e culturali necessarie per capire un testo letterario sono decisamente maggiori”.

Uno dei tanti topoi in merito alla traduzione era che il volgare italiano fosse spesso inadatto per rendere le sfumature del latino. Un problema recente riguarda invece l’inglese, lessicalmente molto meno screziato dell’italiano: come deve comportarsi un traduttore italiano davanti a un testo inglese?
“Il traduttore italiano ha tutti i mezzi per poter affrontare un testo in inglese. Come sempre, il punto di partenza fondamentale è quello di identificare le caratteristiche culturali e linguistiche del testo da affrontare. I testi in inglese non sono tutti uguali. Le culture anglofone presentano delle differenze significative, e perfino la lingua inglese ha caratteristiche particolari a seconda del paese, dello stato o della contea dove viene parlata. Una volta identificate tali caratteristiche, il traduttore deve identificare lo stile e le parole in cui rendere l’originale in italiano. L’Italia ha ottimi traduttori letterari e i lettori possono stare tranquilli perché oggigiorno la qualità delle traduzioni in italiano è molto elevata”.

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