“Una casa di acqua e cenere” è il romanzo d’esordio di Kalyan Ray, considerato uno dei migliori traduttori di poesia indiana contemporanea

Dopo aver compiuto gli studi tra l’India e gli Stati Uniti, Kalyan Ray è oggi considerato uno dei migliori traduttori di poesia indiana contemporanea, e le università di tutto il mondo lo invitano per tenere conferenze e seminari. Ray è sposato con Aparna Sen, celebre attrice e regista indiana. E ora arriva in Italia (per Nord) il suo primo romanzo, Una casa di acqua e cenere.

Il suo libro inizia con un misterioso delitto compiuto oggi, negli Stati Uniti: chi poteva desiderare la morte dei Mitra, anziani e pacifici coniugi di origine indiana? E come mai l’assassino ha deciso di pugnalarli nel sonno, mentre dormivano abbracciati? A questo punto, il lettore si aspetterebbere di leggere d’indagini, di prove, d’indiziati. Invece no. Voltando pagina, ci si troca catapultati indietro nel tempo, nel 1848, e lontano, in Irlanda. Perché la morte dei coniugi Mitra ha le sue origini lì, in quel Paese devastato dalla carestia, da cui fuggono due amici: il primo, Pàdraig, per uno scherzo del destino si ritrova su una nave diretta in India. L’altro, Brendan, s’imbarca verso l’America, convinto che il sogno di una vita migliore possa diventare realtà. La storia di entrambi – e quella dei loro figli, e poi dei loro nipoti… – sarà ricca di tutte le sfumature dell’avventura umana: incontri, passioni, tragedie, avventure, amori e tradimenti tracceranno un arabesco colorato e imprevedibile, che si dipanerà lungo il filo della Storia e del mondo intero. Ma sarà soltanto ai nostri giorni che i due fili si salderanno in un nodo di sangue…

Su IlLibraio.it un estratto dal romanzo
(pubblicato per gentile concessione di Nord)

Robert
Calcutta, India
1911

«Che cosa fai tutto il giorno, figliolo?»

Era l’indomani del mio sesto compleanno ed ero entrato nello studio di mio padre. Non sapevo cosa intendesse dire con quelle parole. Spesso pareva sorpreso di vedermi, come se lo avessi bruscamente distolto dalle sue letture. Ma il mio compleanno non lo dimenticava mai. Quell’anno avevo ricevuto una serie di libri di fiabe illustrati – perché leggere mi piaceva già –, un trenino elettrico con tanto di binari, carrelli ferroviari, carrozze di servizio e una piccola stazione coi segnali rossi e verdi. Io e Baba avevamo mangiato la torta insieme.

Anche dopo tutti questi anni ricordo ancora il sapore: cioccolato e caramello, la mia preferita. Adesso ho tempo per i ricordi, sono un vecchio solo in una vecchia casa.

Sono cresciuto nel silenzio dei grandi ritratti appesi ai muri. Quasi tutte le finestre rimanevano chiuse perché spesso il sole picchiava forte. Giocavo da solo, sotto lo sguardo dei miei antenati morti.

Mio nonno, Pàdraig Aherne, aveva capelli folti e ramati, baffi scuri e una mandibola che sembrava fatta di pietra. Sotto le sopracciglia folte, i suoi luminosi occhi azzurri parevano seguire i miei movimenti. Spesso pensavo che gli dispiacesse non potersene andare in giro. Ero certo che avesse avuto una risata fragorosa. I lunghi capelli erano legati con una fettuccia nera. Le mani erano possenti, una la teneva sullo schienale di una sedia intagliata, l’altra era posata dolcemente sulla spalla di mia nonna. Quanto avrei voluto che la tenesse sulla mia.

Una volta salii su una sedia per osservare da vicino il volto di mia nonna. Aveva un sorriso timido, ero certo che mi avrebbe voluto bene. Ogni volta che entravo in quella stanza era come se avesse appena finito di parlarmi e stesse per aggiungere qualcos’altro. Rimanevo sospeso in quel silenzio, con gli occhi azzurri di mio nonno che mi scrutavano.

«Che cosa fai tutto il giorno?» ripeté mio padre.

«Non lo so», risposi. Ero abituato a giocare da solo in giardino: mi arrampicavo sugli alberi per spaventare gli scoiattoli oppure tiravo la palla contro il muro.

«Hai sei anni», mi disse, guardandomi con aria pensierosa, come il nostro sarto Suleiman, che era venuto a casa due settimane prima per prendermi le misure del completo, un altro regalo di compleanno di mio padre. «Anche il figlio di Joe Belletty ha compiuto sei anni, me l’ha detto l’altro giorno. Si chiama Anthony.» Poi mi mise una mano sulla spalla e aggiunse: «Ti va di andare a giocare con lui?»

«Sì», annuii.

 

Ripenso spesso a quella mattina di più di settant’anni fa, la prima volta che sono uscito per conoscere il mondo.

Sonu-amma, la nostra domestica, mi aveva accompagnato dall’altro lato di Elliot Road, in un piccolo appartamento al terzo piano di un edificio, rumoroso come la strada. Aveva soltanto due stanze piene di mobili e di persone, ma niente libri. Anthony aveva un fratellino, che in quel momento era seduto su una sedia e batteva il cucchiaio su un tavolo da pranzo pieno di schizzi, col padre seduto accanto a lui, vicino a una finestra aperta, ad accarezzarsi il mento e a leggere la pagina sportiva del giornale. Mr Belletty sembrava molto più giovane di mio padre. «Ciao, Robert», mi salutò.

La madre di Anthony era ai fornelli a friggere uova che avevano un profumo delizioso. Non si era ancora pettinata. «Tony, guarda, c’è il tuo amico», lo chiamò.

Tony era sul pavimento che giocava con un trenino che non era lucido come il mio, ma mi sentii comunque fortunato a essere là. «Ciao, Robert», mi disse, come se giocare con un altro bambino non fosse una novità per lui. Mi lanciò un pezzo di legno e io lo afferrai al volo.

«Ciao, Anthony», risposi.

«Io sono Tony. Mia madre mi chiama Anthony quando si arrabbia», disse con una certa enfasi.

La madre scoppiò a ridere e, indicando le sedie di fronte a Mr Belletty, c’invitò a tavola: «Robbie, Tony, le vostre uova sono pronte. Sedetevi accanto a Ned».

Ero incantato. Ecco cosa voleva dire avere una mamma. Chissà se mia madre si pettinava, appena alzata al mattino. Speravo di no. E nessuno mi aveva mai chiamato Robbie, ma da quel momento in poi lei mi chiamò sempre così.

Dopo le uova e il pane fritto, mentre giocavamo sul pavimento, Tony mi confidò che da grande voleva fare il soldato. Subito gli dissi che anch’io volevo entrare nell’esercito. Prima che andassi via, decidemmo che avremmo giocato insieme tutti i giorni fino a quando non ci saremmo arruolati nello stesso reggimento.

(continua in libreria…)

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