Intervista a Mario Biondi autore di Strada bianca per i Monti del Cielo ISBN:8879287249

Nel II secolo a. C. l’Asia Centrale vide dilagare gli Hsiung Nu, gli Unni, e l’imperatore cinese Wu inviò l’ambasciatore Chang Ch’ien a Ovest a cercare alleanze difensive. Le alleanze non furono trovate, ma in compenso furono stabiliti proficui contatti con i Parti persiani. Era praticamente nata la Via della Seta, ovvero l’itinerario attraverso cui avrebbe poi viaggiato fino a Roma l’ambitissimo tessuto su cui i cinesi conservavano un segreto impenetrabile. E nei secoli la Via sarebbe proliferata fino a diventare un reticolo di strade carovaniere dalla Cina al Mediterraneo o al Mar Nero attraverso montagne altissime, deserti mortali e steppe assetate. È su questo affascinante reticolo di vie che a un certo punto Mario Biondi si è reso conto di viaggiare da più di 30 anni, non di rado sulle tracce di Marco Polo e famiglia, con suggestioni di Erodoto e Tolomeo, di Virgilio e Hafiz, visitando Palmira e Petra, Isfahan e Shiraz, Tabriz e Hormuz, il Caspio e l’Oxus, Buchara e Samarcanda, il Turkestan cinese e il deserto Taklamakan. Da questa messe di ricordi è nato il suo ultimo libro, Strada bianca per i Monti del Cielo. Vagabondo sulla Via della Seta. Ne abbiamo parlato con lui.

D. Quello che lei racconta è un lungo viaggio (o, meglio, una serie di viaggi) nella complessità dell’Oriente attraverso Turchia, Siria, Giordania, Iran, le repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale, dall’Italia fino alla Cina. In tempi di paventato “Conflitto di Civiltà” com’è possibile disporsi all’incontro con altre culture?

R. Come sarebbe a dire “possibile”? Io lo considero “obbligatorio”, un vero e proprio dovere civico. Soltanto impegnandosi a fondo perché tale incontro avvenga e si evolva si può dare un contributo allo sviluppo armonico della nostra (delle nostre) civiltà. Non certamente facendo il finto struzzo, ovvero l’autentico egoista, e in tal modo favorendo inimicizie, razzismi, massacri, guerre (sempre definite “virtuose” da chi le dichiara).

D. Che cosa significa “Strada bianca”? Lei lo spiega in apertura di Strada bianca per i Monti del Cielo, ma vuole anticiparlo qui per chi ancora non si sia accostato al libro?

R. È un frase di augurio che viene rivolta al viaggiatore nell’Asia Centrale. A voce e anche scritta su cartelloni lungo le grandi vie di comunicazione (e la Via della Seta lo è per eccellenza). Significa “Buona fortuna, Buon viaggio”. È un’espressione che – cito me stesso – “esprime la cultura di colui che è viaggiatore per natura, il nomade… Per essergli propizia, per essere sicura, la strada doveva essere «bianca», ben tracciata e spianata dal passaggio di migliaia – milioni – di uomini e animali. Se era «bianca» garantiva una buona continuazione del viaggio e quindi della vita”…

D. E i Monti del Cielo?

R. Sono i Tien Shan, altissimi, impervi, splendidi, attraverso i cui valichi, ben oltre i 3500 metri, si arriva in Cina dall’Asia Centrale (o si torna indietro). Uno dei grandi ostacoli naturali della Via della Seta. Io li ho attraversati in auto facendo tappa nelle yurte, ma non potevo mai fare a meno di pensare a chi ai tempi doveva farlo a cavallo, in groppa a un cammello, o a uno yak…

D. In questo libro, come già nel precedente Güle Güle. Parti con un sorriso, l’esperienza del viaggio vive di un rapporto continuo e proficuo con la memoria (personale, storica, mitica). Qual è il rapporto fra viaggiare e ricordare?

R. È un rapporto complesso, non facile da definire. Si viaggia per conoscere, per imparare, e spesso imparare significa semplicemente far affiorare nella memoria ricordi che non si sapeva nemmeno più di avere. Ricordi di studi o letture: geografia, storia, mitologia, folklore, ma anche matematica, scienza… Il viaggio è il miglior catalizzatore per far condensare e riaffiorare simili ricordi. Per esempio, soltanto dopo oltre 30 anni di viaggi, fuori delle mura merlate dell’oasi di Khiva, in Uzbekistan, mi sono reso conto che stavo fin dall’inizio inoltrandomi inconsapevolmente sulla Via della Seta. Ma nel Primo Millennio dell’Era Comune Khiva è anche stata uno straordinario centro di cultura, patria di grandi matematici, scienziati, astronomi, filosofi. Riflettendo su tutto ciò, a poco a poco ci si rende conto che ogni cosa si compone in un magnifico conglomerato unico di conoscenza.

D. La sua idea di viaggio è molto distante da quella tipica del turismo di gruppo: in solitudine ma disposta all’incontro, mediata dalla cultura ma attenta alla realtà quotidiana, progettata ma aperta all’imprevisto, disincantata ma continuamente disponibile alla scoperta, una sorta di vagabondaggio creativo. Qual è il modo migliore di viaggiare?

R. Ciascuno ha il suo, e ciascuno lo considera giustamente il migliore. Tuttavia, viaggiare in assoluta indipendenza (solitudine) dispone a incontrare il “nuovo” con atteggiamento vergine, esente da filtri e possibili distorsioni. Quando uno viaggia da solo è costretto a confrontarsi con i locali, non foss’altro per chiedere un’indicazione, cibo, acqua, un tetto per la notte. Se si trova tutto già preparato, che scoperta sarebbe? Che gusto c’è? Che cosa si impara? Viaggiando a modo mio, invece, si è costretti piano piano a imparare qualche parola, e dalle parole isolate si passa alle frasi, e la conoscenza si amplia, si affina. E la conoscenza reciproca è la base dell’amicizia.

D. Da Marco Polo a Colin Thubron, passando per Lawrence d’Arabia, Charles Doughty, Sven Hedin, Freya Stark e tanti altri: lei cita molti scrittori-viaggiatori. Ha modelli?

R. Tutti i nomi che lei ha citato sono per me modelli. E che dire di personaggi eroici come Fra’ Giovanni da Pian del Carpine, Guglielmo di Rubruck, Ibn Battuta, l’ambasciatore spagnolo Gonzalez de Clavijo, che arrivò fin da Tamerlano e oltre ai primi del Quattrocento…

D. Il suo viaggiare presuppone una lunga e accurata preparazione. Dica la verità, si diverte di più quando viaggia sulla strada o quando lo fa sulla carta?

R. Il viaggio “su strada”, per essere ben fatto, per dare il giusto piacere, non può prescindere da un’accurata preparazione “su carta”, anche mentre lo si sta facendo. Su mappe, su guide di viaggio, su libri di storia, di geografia, di politica, di folklore, su esperienze e ricordi altrui. L’idea di viaggiare semplicemente per andarmi a tuffare in un mare esotico e tornare a casa bello abbronzato e ginnico, senza curarmi a fondo della storia, della geografia, del folklore, della cultura, della situazione sociopolitica locale, non può nemmeno sfiorarmi.

D. Il suo futuro di scrittore sarà ancora “sulla strada” o tornerà a frequentare i territori della narrativa?

R. Raccontare (narrare) memorie di viaggio è anch’esso un modo di fare narrativa. Comunque si dice che “il futuro è nelle mani di Dio”. Nei paesi di cultura musulmana, quando qualcuno mi chiede se tornerò lì, mi limito ad alzare gli occhi al cielo. E l’interlocutore mormora “Inshallah”, “Se Dio lo vuole”. Il senso delle due espressioni è forse diverso? Ma un grande poeta ha anche scritto che ”il futuro ha un cuore antico”. Quindi penso che un giorno o l’altro il cuore mi farà tornare all’antico, ovvero alla narrativa di “invenzione”, di “finzione”. Se Dio lo vuole, naturalmente.

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