Dopo aver svelato i segreti delle profondità dell’oceano e il volto nascosto della Luna, lo scrittore tedesco Frank Schätzing conduce il lettore in un viaggio attraverso la mente umana… – Su ilLibraio.it un estratto dal romanzo “Il quarto uomo”

Kuwait, 1991. Una scatola piena di diamanti tra le macerie di un convoglio saltato in aria. Per uno come lui, che da anni combatte come mercenario, è un sogno diventato realtà. Presto lui e i suoi due compagni potranno farla finita con quella vita. Almeno così crede, finché non rimane ferito in un violento scontro a fuoco e gli altri si danno alla fuga, lasciandolo a morire nel deserto…

Colonia, alcuni anni dopo. C’è qualcosa di strano in Simon Bathge, Vera lo ha intuito subito. Non è il solito marito geloso che vuole assumere un detective per provare l’infedeltà della moglie. Bathge ha paura. Ha bisogno di rintracciare un suo vecchio «amico», Andreas Marmann, ed è disposto a pagare qualsiasi cifra perché Vera lo trovi. Prima che sia Marmann a trovare lui…

Colonia. In un appartamento poco lontano dal centro viene rinvenuto un cadavere. Da un primo esame, è evidente che l’uomo è stato torturato a lungo da un professionista. Non ci sono impronte né tracce di DNA, niente. L’unico indizio è una vecchia foto della vittima scattata durante la guerra del Golfo, in cui posa davanti a una jeep insieme con altri due commilitoni…

Arriva in libreria per Nord il nuovo romanzo di Frank Schätzing, Il quarto uomo.

Su ilLibraio.it un estratto
(pubblicato per gentile concessione di Nord)

Vera

Ore 11.07

Guardò il foglio, poi lo specchietto davanti a sé, e si chiese cos’avesse di strano il naso.

Troppo lungo?

La bocca sorrideva, era venuta bene. Sì, doveva essere il naso. In un certo senso, il naso non ci azzeccava con la bocca.

In un certo senso, niente ci azzeccava con niente.

Si rigirò la matita tra le dita, indecisa, poi la posò, prese lo specchietto e se lo mise davanti agli occhi. L’iride era azzurro ghiaccio, con un contorno più scuro. Le sopracciglia larghe e folte. Depilate al centro, altrimenti avrebbero formato un’unica onda dorata. Il naso, piccolo, ma con le narici ampie, che spiccava sulla bocca, larga e truccata di scuro.

Allontanò lentamente lo specchietto dal viso per avere una visione più ampia. Zigomi sporgenti, fronte piccola, cranio rotondo, capelli biondi, lunghi sei millimetri. Sotto il labbro inferiore, una cicatrice bianca e fine come un capello che attraversava tutto il mento.

Sì, c’erano visi più belli, pensò Vera. Nel suo, niente ci azzeccava con niente.

Soprattutto, non ci azzeccava niente col resto della famiglia.

Riallontanò lo specchietto, allungando il braccio più che poteva. Di quella donna, adesso, vedeva anche il collo e le spalle. Nessun gioiello. Maglietta nera, giacca nera. Nient’altro.

Entrambi i capi, tuttavia, di primissima qualità.

Vera si concesse un sorriso di approvazione. Non aveva molto, ma quel poco aveva stile. Si rifiutava di portare merci scadenti o di circondarsi di ciarpame. Nel suo ufficio c’era solo una libreria per faldoni colorata e una grande scrivania nera lucida. Alcune sedie, due poltrone e un divanetto a seduta doppia di Le Corbusier, tutti neri. Tutti disposti attorno a un tappeto grigio antracite.

Vera alzò lo specchietto e lo riavvicinò al volto, fino a che non fu di nuovo riempito soltanto dagli occhi. I suoi occhi, quelli sì, li trovava belli. Il resto, insomma… Ma gli occhi non erano male.

Lentamente, si avvicinò l’indice della mano sinistra verso la punta del naso e lo tirò un po’ su, fino a quando il labbro superiore non si staccò da quello inferiore e non comparvero gli incisivi.

Una coniglietta bionda, pensò. Che buffo.

«Scusi», disse all’improvviso una voce.

«Salve», rispose Vera in tono gelido. «Ho una sala d’attesa.»

Tutte le volte che restava zitta per un po’, quando risentiva la propria voce le sembrava quella di un’estranea. Troppo profonda, troppo fredda, come se gliel’avessero prestata, perché la sua l’aveva persa.

Lo sconosciuto indicò col pollice alle proprie spalle. «Non c’era nessuno, ma se ha da fare aspetto.»

Dove diavolo era finito Strunk? Cosa li pagava a fare i dipendenti? Perché non l’aveva avvertita che era uscito? «Prego.» Vera posò lo specchietto sulla scrivania e indicò all’uomo una delle poltrone.

Lui non sembrava intenzionato a sedersi. «Davvero, mi scusi, ma…»

«L’ho già scusata, adesso si accomodi.» Allargò le braccia e inarcò le sopracciglia. «Cosa posso fare per lei?»

Lui sorrise. Non era altissimo, aveva i capelli castani piuttosto lunghi e una barba piena, ma curata, di circa un millimetro. Si avvicinò, prese posto e si guardò intorno con curiosità, ma discreta. Poi tirò fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca interna della giacca e lo porse a Vera. «Gradisce?»

«No.»

«Posso?»

«Ci mancherebbe.» Gli passò un posacenere e attese.

L’uomo tirò fuori un accendino e l’accese senza fretta. I suoi movimenti erano agili e controllati. Un momento dopo, fu circondato da una coltre di fumo, che allontanò con un soffio. «Vera Gemini, giusto?»

Lei annuì.

«Ha una fama incredibile. Sono stato da uno dei suoi colleghi, ma mi ha spedito da lei.»

«Bene.»

«Accetta ancora clienti?»

La domanda la sorprese. Di solito le persone iniziavano con mille chiacchiere, il sospetto che una detective privata potesse essere <CE>sold out<XC> non le sfiorava nemmeno. «Dipende da cosa vuole. Comunque, direi che sono piuttosto indaffarata», rispose. Era la verità.

«Vorrei che trovasse una persona.» Si sporse in avanti, frugò di nuovo all’interno della giacca, tirò fuori una foto e la posò sul tavolo.

Lei la prese, si accorse subito che a sinistra era stato tagliato un pezzo. A ogni modo, c’era un uomo coi capelli scuri a spazzola, in mezzo al deserto. Era a torso nudo, con un’arma a tracolla. Spalle, petto e braccia perfettamente proporzionate. Il volto abbronzato, lo sguardo sveglio, gli occhi scuri e penetranti. Gli angoli della bocca piegati in un’espressione sarcastica. Guardava verso l’obiettivo, come se volesse rivendicare la proprietà su qualcosa.

Lì per lì la colpì. Poi restituì la foto al possibile cliente e puntò i gomiti sul tavolo. «Okay, due domande. La prima: lei chi è? La seconda: chi è lui?»

L’uomo ebbe un sussulto, appena accennato. «Oh, mi scusi, ha ragione, che maleducato.» Esitò. «Bathge. Simon Bathge.»

«Chi… lei o lui?»

«Io. L’uomo della foto si chiama Andreas Marmann.»

«Temo che dovrà raccontarmi qualcosina di più.»

«È cara, lei?»

«Sì.»

Bathge serrò le labbra, ma non si lasciò intimidire. «Allora», disse poco dopo. «Il motivo per cui lo sto cercando vorrei tenerlo per me. D’accordo?»

«Dipende. In fondo sono affari suoi, ma io devo sapere se è un lavoro pericoloso.»

«No. No, davvero, non lo è.»

«Vale a dire?»

«Diciamo che non lo è, almeno non per lei, ne sono sicuro. Su Marmann, posso dirle che è cresciuto a Colonia. Chieda alla segreteria della Realschule di Frankstraße, troverà qualcosa. Nella vita si è occupato di tutto ciò che può avere a che fare coi soldi. Nella maggior parte dei casi, però, gli è andata male. Non dico che sia stata colpa sua, ma si sarebbe meritato di più. Non era stupido, affatto. Però capita, quando uno se la tira in quel modo.» Bathge fece una pausa. «Io ci andavo d’accordo, altri un po’ meno. Dieci anni fa, è entrato in una banca con un mitra spianato, lo hanno preso e condannato. Mentre lo trasportavano al carcere di Ossendorf, è riuscito a scappare. Da allora, di lui si è persa ogni traccia.»

«Per la polizia. E per lei?»

«Io ho avuto contatti con lui fino all’inizio degli anni ’90.»

«Che tipo di contatti?»

«Questo non ha importanza. La cosa importante è che è sparito da Colonia nel 1987, anzi proprio dal mondo. Del resto, se uno vuole, non è difficile svanire nel nulla.»

Vera lo scrutò. Bathge sembrava calmo e rilassato, ma sotto quella maschera lei percepiva evidenti cenni di nervosismo. «Esistono molti modi non difficili per svanire nel nulla. Il suo amico… quale ha scelto?»

Alla parola «amico», il volto di Bathge s’indurì. «È diventato un legionario», rispose.

«Legionario?»

«Sì, è entrato nella Legione straniera, il refugium peccatorum dei falliti, dove finiscono tutti quelli che, per un motivo o per l’altro, non ce l’hanno fatta. Si è sparato cinque anni di Gibuti e Guyana per difendere gli interessi dei francesi, come piace dire agli occupanti.» Sorrise. «Non credo debba spiegarle come vivano i mercenari. La guerra è un lavoro.»

Vera annuì.

Bathge fece l’ultimo tiro di sigaretta, poi la spense nel posacenere colorato e si tirò indietro. «Io l’ho perso di vista nove anni fa», aggiunse. «O lui ha perso di vista me, a seconda di come uno vuole vedere la cosa. È tutto.»

«È troppo poco.»

«Di altro non avrà bisogno.»

«Cosa le fa pensare che sia a Colonia?»

«Lo ritengo possibile… per diversi motivi. Marmann voleva tornare qui, lo diceva sempre, ma ovviamente dopo l’evasione non era facile. La Legione straniera era il posto più sicuro. Le ripeto, ci è stato per cinque anni, poi si è unito a un gruppo di mercenari che agiva a un livello superiore, tutti specialisti. Molti di loro poi sono finiti in Jugoslavia, ma la prima vera operazione è stata in Kuwait. In missioni simili si guadagnavano un mucchio di soldi. A differenza degli eserciti regolari, infatti, il mercenario vuole ciò che il soldato deve.»

«Combattere.»

«Esatto.»

«Credevo che nella guerra del Golfo ci fossero già abbastanza soldati, insomma che non ci fosse stato bisogno anche dei legionari.»

Bathge scosse la testa, prese un’altra sigaretta e la accese. «Gli eserciti», spiegò sbuffando, «hanno fatto quello che dopo è stato chiamato ‘guerra pulita’: annientare truppe nemiche, risparmiare civili, conquistare vittorie d’onore.» La trapassò con lo sguardo. «Ma le guerre non si vincono con l’onore. Ci sono un sacco di cose con cui gli eserciti e i governi del cosiddetto mondo libero non si vogliono sporcare le mani, ovvero le pratiche vietate dalla Convenzione di Ginevra. Che il presidente degli Stati Uniti farebbe volentieri, se potesse. Ma, visto che non può, lo zio Sam si è inventato questi reclutamenti speciali, ovvero di mercenari. In via ufficiale e col beneplacito dell’opinione pubblica. Tanto, se succede qualcosa a un mercenario, non interessa a nessuno, perché lui fa parte della feccia anonima, non è mica un paladino della patria timorato di Dio, con moglie e figli che lo aspettano. È questo il bello dei mercenari, che si fanno carico di qualsiasi cosa. In casi estremi, si prendono pure la responsabilità delle malefatte degli eserciti regolari, basta che li si paghi. I mercenari sono al di sopra di qualunque convinzione, non gli si può rinfacciare di aver tradito una determinata posizione politica, perché non sono schierati con nessuno. Per questo è così facile lavorarci assieme. Se è necessario, fanno saltare in aria anche palazzi pieni di civili. Ammazzano donne e bambini. Conducono interrogatori alla fine dei quali il sospettato è irriconoscibile. Capisce cosa intendo?»

«Marmann quindi era un mercenario?»

«L’ultima volta che l’ho visto sì, lo era. Ma diceva di voler reinvestire i soldi guadagnati sul campo di battaglia in una nuova identità… per poter tornare, appunto, a Colonia.»

«Un nuovo volto?»

«Non per forza. Un nuovo nome, un nuovo passaporto… o semplicemente un nuovo Paese.»

«Allora credo che la sua foto non mi aiuterà granché.»

Bathge si strinse nelle spalle. «È tutto quello che ho.»

Vera rifletté. Avrebbe fatto qualche ricerca, che comunque poteva sbrigare anche Strunk. «Io costo ottanta marchi al giorno, più le spese. Non so se conosce il detto… Bogart costava sei dollari, ma i tempi sono cambiati.»

«Cavolo se è cara…»

«Già.»

«Okay… quindi accetta l’incarico?»

«Sì.»

«Bene, è suo. Ovviamente, mi aspetto che lo trovi.»

«Certo. Dove posso contattarla?»

«Non ci provi, perlomeno all’inizio.»

Vera scosse la testa e si sporse in avanti. «Adesso mi stia bene a sentire. I tempi sono cambiati non solo nella retribuzione. Qui non siamo al cinema. I detective firmano dei contratti. Quindi, se vuole che svolga questo lavoro per lei, ho bisogno di nome, indirizzo, numero di carta d’identità e migliaia di altre cose. Può venire qui a fare il misterioso quanto le pare, tanto non m’impressiono. L’unica cosa che m’impressiona sono i soldi.»

Bathge sgranò gli occhi.

«Quindi o mi dà indirizzo e numero di telefono, oppure dovrà cercarsi qualcun altro», proseguì Vera in tono un po’ più calmo.

Lui scosse la testa. «Ma io voglio lei, non voglio nessun altro. Non so perché, ma ho la sensazione che potrebbe davvero aiutarmi… Adesso mi ascolti: ho i miei buoni motivi per rivelarle il meno possibile sul mio conto, per lo meno fino a quando posso… E se la mettiamo in questi termini?» Tirò fuori un mazzetto di banconote e lo posò sul tavolo. «Dovrebbero bastare per due settimane. Se non torno, sospenda le ricerche. Così lei continuerà a non correre rischi, e neanch’io. Che ne pensa?»

Vera osservò le banconote e unì le punta delle dita.

A volte, invece, era proprio come nei film.

«Va bene», rispose.

Bathge sorrise. Guardò la sigaretta fumata per metà che aveva tra le dita e la spiaccicò sopra il mozzicone della precedente, nel posacenere. «Dovrei smettere. Ci si può anche restare secchi.» Lo sguardo cadde sull’autoritratto. «Ma quella è lei!» esclamò, sorpreso. Guardò Vera, e poi di nuovo il disegno.

Vera si maledisse per non aver levato di torno il figlio, magari buttandolo subito nel cestino. «Sì», commentò, imbronciata.

«Chi lo ha fatto? Scusi se sono così indiscreto, ma…»

«Io.» E lo prese.

«Le dispiace… le dispiace se lo guardo meglio?»

Fu tentata di sbatterlo fuori a calci. Ma quell’improvvisa timidezza la commosse, la mise di un umore strano, conciliante. Così, invece di far sparire il foglio, glielo porse.

Lui lo osservò con occhi che brillavano. «È fatto molto bene.»

«Grazie.»

«Ma c’è qualcosa che non torna. È come se fosse indecisa se ridere o restare seria.»

«In che senso?»

«Nel senso che la bocca ride, ma tutto il resto no.»

Vera riprese il disegno e lo guardò con attenzione. Aveva ragione. Ecco cos’era. «Signor Bathge, posso farle una domanda?»

«Certo.»

«Perché vuole trovare Marmann?»

«Pensavo che di aver già messo in chiaro che…» Si fermò. All’improvviso si rese conto di doverle qualcosa. Lei gli aveva fatto vedere il suo autoritratto, una cosa personale, quindi adesso anche lui doveva esporsi. Così si alzò e chiuse il bottone centrale della giacca. Il luccichio nei suoi occhi si era spento. «In modo che lui non trovi me», rispose.

(continua in libreria…)

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