“Più diventiamo social e virtuali, più siamo dipendenti dalla sfera emotiva, tanto che ce la ritroviamo sbandierata praticamente ovunque”. Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Roberta Marasco, secondo cui “sarà necessario sempre più avere una gran cura delle parole, preservarle”

 

Mia mamma ha iniziato a usare Whatsapp.

Se pensate che non ci sia niente di grave, aggiungerò che mia mamma è una di quelle persone che riescono a far durare i saluti più del resto della telefonata. Anche il telefono fisso nelle sue mani è un’arma pericolosa. Con Whatsapp a sua disposizione, ero certa che avrebbe superato perfino i livelli terrificanti della chat della 5B (dove in due mesi siamo riusciti ad arrivare a 500 messaggi, di cui nessuno riguardante la scuola).

La chat di classe si è rivelata insuperabile, purtroppo o per fortuna. In compenso, da quando mia madre ha accesso a Whatsapp ho scoperto una serie di emoticon di cui ignoravo completamente l’esistenza. Faccine imbronciate, dubbiose, con l’aureola, pupazzi di neve con il delirium tremens, fantasmini in acido, casette sullo sfondo di tramonti multicolori, mappamondi, e un gran sventolare di bandiere italiane (io vivo all’estero). Fin dal primo messaggio, mia madre ha rivelato una competenza in fatto di emoticon da far tremare i polsi a un adolescente. Altro che hipster, dovrebbero assumere le nonne come social media manager.

Ma perché, mi sono chiesta a un certo punto, mia madre e mia figlia usano Whatsapp sommergendo le parole di emoticon, mentre io non riesco neanche a mandare un pollice all’insù senza aggiungerci almeno un “va bene”? Io che vado tanto fiera del mio amore per i social, non sarò mica più vecchia di mia mamma in anni digitali?

Poi ho capito. Gli emoticon per mia mamma sono l’equivalente dei saluti interminabili al telefono. Sono quel malloppo di emozioni che non sa mai dove infilare nei nostri tempi accelerati e nelle nostre telefonate frettolose. Quel diluvio interminabile di domande che in fondo si possono riassumere in una sola: “Lo sai che ti voglio bene, vero?” Se il telefono non le bastava, nella sua freddezza, Whatsapp è una barriera di ghiaccio insormontabile, da scalare a colpi di emoticon con faccette idiote.

E non succede solo a mia mamma, a ben pensarci, succede un po’ a tutti. Un messaggio senza almeno una faccina, un sorriso o una strizzatina d’occhio rischia di sembrare aggressivo, scocciato, irritato. Se le mail avevano dato il via a un uso indiscriminato dei punti esclamativi e interrogativi (e qualche volta anche delle maiuscole), con Whatsapp è diventato definitivamente impossibile limitarsi all’uso dell’alfabeto.

Alla perdita di fisicità si accompagna un bisogno proporzionale di emozioni. Più diventiamo social e virtuali, più siamo dipendenti dalla sfera emotiva, tanto che ce la ritroviamo sbandierata praticamente ovunque, dagli spot ai quotidiani on line. Il digitale richiede una dose extra di emozioni per poter funzionare, per compensare l’assenza di corporeità, per placare l’ansia della gratificazione eternamente rimandata dei social.

Lo dimostra il fatto che molti testi di narrativa che nascono in digitale siano sovraccarichi di emozioni, cerchino la trasgressione, la sorpresa, il dramma portato alle estreme conseguenze. Non è un caso che le Cinquanta sfumature abbiano avuto origine da una fan fiction e in questi termini forse si spiega anche il successo della cosiddetta letteratura M/M, anch’essa nata in digitale, che narra amori maschili omosessuali e dove il dramma non manca quasi mai, oltre al senso di sconfinamento emotivo insito nel tema stesso; o di quel fenomeno pericoloso e sempre più diffuso noto come dark romance, che spinge sempre più in là i confini dell’erotismo, tingendolo di violenza e di sopraffazione.

Se è vero, come leggiamo su la Repubblica del 25 ottobre, che “una bugia tira l’altra” e che si inizia con piccole azioni disoneste finché l’amigdala, che regola la nostra risposta emotiva al comportamento scorretto, inizia a guardare dall’altra parte, allora non ci sarebbe da stupirsi se anche i romanzi che nascono dal digitale fossero destinati a forzare sempre di più i limiti della violenza e del dramma, a mano a mano che il lettore, proprio come l’amigdala, inizia ad assuefarsi. Si tratta ovviamente di un fenomeno complesso che non può essere riassunto nello spazio di un articolo e che non ho le competenze per affrontare, ma il dubbio resta.

Come sta cambiando il nostro modo di vivere le emozioni? Ci stiamo abituando a emozioni sempre più forti e urlate, alzando ogni volta il nostro livello di soglia? Saremo ancora capaci, di qui a trenta o quarant’anni, di vivere emozioni lievi, appena sussurrate? Di riconoscere quella tristezza mesta che ti striscia dentro e che non provoca necessariamente due fiumi azzurri sulle guance, o di cercare la complicità altrui senza fare l’occhiolino, o di essere esausti, stremati, fiacchi, stanchi, affaticati e qualunque altro stato di spossatezza che non sia riassumibile da un’enorme goccia di sudore sulla fronte?

Se dovessi azzardare una risposta, direi di sì. In fondo la mia generazione è cresciuta guardando Hello! Spank e Heidi e, fatte poche eccezioni, nessuno andava in giro con la bocca a cuore e gli occhi spiritati.

Sarà necessario però avere una gran cura delle parole, preservarle, tirarle fuori dai dizionari il più spesso possibile, come faremmo con il servizio di posate buono, quello d’argento della lista nozze, che non usiamo quasi mai ma che lucidiamo ossequiosamente perché sia pronto per l’occasione. Dovremo fare lo stesso con le parole, per non rischiare di non trovarle più quando ne avremo bisogno.

Le parole arrivano più in là di quanto immaginiamo, agiscono, creano, modellano, declinano la nostra visione dell’esistenza. Le parole compiono piccole magie. La parola giusta al momento giusto può salvare una giornata o dare senso a una vita intera. Quando tutto il resto ci tradirà, resteranno le parole a salvarci. E con un po’ di fortuna, saranno disposte a perdonarci per averle tradite con la prima faccina ammiccante che passava.


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IL LIBRO E L’AUTRICE – Le regole del tè e dell’amore (in libreria per Tre60) è l’ultimo libro di Roberta Marasco. L’amore di Elisa per il tè risale alla sua infanzia. È stata sua madre a insegnarle tutte le regole per preparare questa bevanda e ad associare, come per gioco, ogni persona a una varietà di tè. Daniele, il suo unico grande amore, è tornato dopo tanto tempo. Ma Elisa ha imparato da sua madre a non fidarsi della felicità, a non lasciarsi andare mai, perché il prezzo da pagare potrebbe essere molto alto. Prima di tutto dovrà trovare se stessa, poi potrà capire se Daniele può renderla felice. Quando trova per caso una vecchia scatola di tè con un’etichetta che riporta la scritta ROCCAMORI, il nome di un antico borgo umbro, Elisa ne è certa: si tratta del tè proibito della madre, quello che le fece provare solo una volta e che, lei lo sente, nasconde più di un segreto. Forse proprio lì, in quel borgo antico, Elisa potrà trovare le risposte che cerca e imparare a lasciarsi andare e a fidarsi dell’amore, guidata dall’aroma e dalle regole del tè…