“Saranno sempre necessari luoghi che ci ricordano il potere distruttivo della crudeltà umana”, ammette Affinity Konar, autrice di “Gemelle Imperfette”, romanzo lodato dalla critica letteraria Usa, che racconta la storia di due gemelle internate ad Auschwitz e sottoposte agli esperimenti di eugenetica. “Ero stata colpita dalle storie dei sopravvissuti: erano solo bambini che avevano trovato modi di aiutarsi a vicenda per sopravvivere, dimostrando una forza d’animo sorprendente”, racconta la scrittrice che, intervistata da ilLibraio.it, dice la sua anche sugli Usa al tempo di Trump: “Come per molti altri americani, il disgusto che ho provato è stato viscerale… Ma ora finalmente si sta ricominciando a usare la parola ‘resistenza’…”

Affinty Konar, autrice californiana e discendente di immigrati polacchi, nel suo Gemelle Imperfette (Longanesi) racconta uno dei momenti più drammatici della storia contemporanea, l’Olocausto. E lo fa attraverso gli occhi di due gemelle, Pearl e Stasha, internate ad Auschwitz e ben presto inserite nel programma di esperimenti del medico nazista Mengele, che prediligeva le coppie di gemelli per portare avanti le sue “ricerche” sull’eugenetica.

Un romanzo su uno dei momenti più terribili della nostra storia, ma anche su un legame speciale, quello di due sorelle che possono fare affidamento solo su loro stesse per sopravvivere alle atrocità a cui sono sottoposte.

Per capire le motivazioni che hanno spinto Affinity Konar a ripercorrere un periodo così doloroso, ma anche discutere dell’importanza del passato per comprendere il presente, soprattutto in questa complessa fase storica, ilLibraio.it ha intervistato l’autrice, che per Gemelle Imperfette è già stata lodata dalla critica letteraria Usa.

Perché ha scritto un romanzo su uno dei periodi più bui della storia contemporanea, l’Olocausto?
“Non è stata tanto una decisione, quanto un dovere. Ho scoperto che ad Auschwitz venivano fatti esperimenti sui gemelli in un brutto periodo della mia vita, quando avevo smesso di andare a scuola, tramite un libro, Children of the flames di Lucette Lagnado. Ero stata colpita dalle storie dei sopravvissuti: erano solo bambini, che avevano trovato modi di aiutarsi a vicenda per sopravvivere, dimostrando una forza d’animo sorprendente. E così ho iniziato a pensare alle conversazioni tra le due gemelle: le sentivo parlare nella mia testa e mettevo tutto per iscritto”.

Così è nato il libro?
“All’inizio non pensavo di scrivere un libro, si trattava di un percorso privato, molto intenso. Però, quando provavo a raccontare altro, non ci riuscivo. Nonostante sia una storia tetra, come è ovvio che sia data l’ambientazione in un periodo storico così spaventoso, sono stregata dal legame tra Pearl e Stasha. Scrivere di loro due e della loro straordinaria resilienza ha reso il libro qualcosa di necessario per me”.

Recentemente ha visitato la Polonia: cosa ha significato per lei vedere il luogo di cui ha scritto? E come crede che il Paese sia sopravvissuto a una storia così difficile?
“La Polonia mi affascina fin dall’infanzia per via del mio retaggio culturale, ma anche per la distruzione che ha subito. Varsavia era la città più distrutta al mondo: mi ricordo ancora lo stupore che provavo da bambina guardando le immagini degli edifici rasi al suolo per rappresaglia dopo la rivolta dei cittadini. Quindi è stato straordinario camminare per la città, visitare lo zoo… Opere d’arte sono state razziate e mai restituite, i ghetti ebraici non esistono più: deve essere difficile convivere con queste ferite e vedere la propria nazione che diventa teatro delle atrocità dei nazisti. Ma c’è un senso di rinascita nella ricostruzione di Varsavia e anche nelle poesie degli autori polacchi…”.

Quale?
“Sono tristi nel tono, ma nascondono vitalità e spirito battagliero”.

Ha ancora senso, oggi, visitare i campi di concentramento?
“Credo sia importante farlo, ma con sensibilità e rispetto per chi vi è stato ucciso. Sono infastidita dal turismo in cerca della sofferenza, ma anche dai tour nei luoghi della Seconda Guerra Mondiale, per cui un campo di concentramento è solo uno dei tanti stop; tuttavia non è possibile regolamentare l’attitudine dei turisti. Garantire l’accessibilità a questi luoghi è fondamentale, perché abbiamo bisogno di ricordare e di tenere a mente quello che è successo: si tratta di un confronto tra passato e futuro. Nel ricordo non possiamo ignorare le nostre responsabilità verso gli altri”.

Ha vissuto questa esperienza in prima persona?
“Sono stata ad Auschwitz nell’estate del 2016, proprio durante l’anno in cui le elezioni americane hanno portato a galla tutto l’odio che per anni era rimasto sul fondo. Inoltre, sono californiana e proprio nel mio Stato erano internati gli americani di origine giapponese durante la seconda guerra mondiale. Per questi motivi penso che saranno sempre necessari luoghi che ci ricordano il potere distruttivo della crudeltà umana”.

Come cittadina e come autrice, si sente rappresentata da Trump?
“Non sono sorpresa da quello che è successo: l’odio è l’unica arma di un uomo ignorante, con un grande ego a supportarlo, e l’estremismo è un modo per fare colpo su persone che sono deluse dalle loro vite. Come per molti altri americani, il disgusto che ho provato dopo l’8 novembre è stato viscerale. Mi sono anche vergognata, in quanto discendente di polacchi che sono arrivati in America nel 1932, di vedere il leader del mio paese promuovere la divisione razziale e supportare l’odio verso le minoranze, gli immigrati, le donne e la comunità LGBTQ. Abbiamo un bullo infantile per presidente: la metto sul ridere, anche se c’è davvero poco di cui scherzare”.

Non a caso sono molte le proteste…
“Infatti mi sento esaltata dal numero di americani che si è unito nell’opposizione. Vogliamo che gli altri capiscano che questo presidente non ci rappresenta perché appartiene a un gruppo di cittadini che non crede nei diritti e negli ideali del nostro Paese. Sono felice che la parola resistenza sia entrata nella discussione generale: è un termine su cui mi sono concentrata molto scrivendo il libro”.

Cambiamo argomento: quali sono gli autori che ama?
“Grace Paley è nel mio cuore: la sua voce è saggia, femminile e politica. Isaac Babel è un altro mio amore, sa rappresentare la violenza, la natura e la guerra. Sono cresciuta sperando di scrivere come Kafka, ma quando ho capito che era impossibile mi sono accontentata di ricercare la sua stranezza fiabesca. Mentre scrivevo il mio romanzo ho letto e riletto La strada di Cormac McCarthy, è stato fondamentale. Mi piace molto la poesia e leggo Charles Simic, Adam Zagajewski, Vasko Popa, Sylvia Plath, Wislawa Szymborska, Yehuda Amichai. Di recente il mio agente mi ha consigliato Kim Hyesoon, di cui non avevo mai letto nulla: è divertente, oscura, femminile, fiera e ha occhio speciale per le ingiustizie. Queste sono tutte caratteristiche che vorrei trovare nei miei lavori e per questo le ricerco in ciò che leggo”.

Qual è, invece, il miglior libro sull’Olocausto?
“Ci sono così tante opere sull’Olocausto… è davvero difficile consigliarne una, ma citerei Primo Levi. La tregua è stata la sua prima opera che ho letto e il racconto del viaggio verso l’Italia dopo la liberazione di Auschwitz è un capolavoro della letteratura. Le sue esperienze sono umane ma, allo stesso tempo, spirituali: sono raccontate con precisione scientifica, tuttavia non sono fredde, ma mirano alla comprensione degli altri. Si tratta di uno sforzo per ritrovare significato e umanità dopo un’esperienza così alienante che pochi di noi possono capire. Il modo in cui riesce a farlo nei suoi libri mi ha sempre sbalordita”.

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