Leggere e scrivere di padri è sempre difficile. Ne parla su ilLibraio.it Andrea Salonia, urologo, andrologo e scrittore, secondo cui c’è bisogno di romanzi che si confrontano con un tema delicato e poco raccontato, quello dell’infertilità maschile

Martino collezionava rumori. Il cigolio della porta. L’abbaiare di Tobia, il suo primo cane, così rosso di pelo che poteva essere venuto solo dal centro della terra. Il respiro di Cecilia quando al mattino dormiva ancora, lui già in piedi, il primo caffè nella destra, a meravigliarsi di lei, futura madre dei suoi figli. Dalle elementari Martino scriveva i suoni e i rumori su un quaderno color delle ortiche. Ancora bambino ci era caduto dentro, madido alle calcagna di Tobia che correva dietro a una gallina. Martino si era fatto un’unica bolla per tutto il corpo; la gallina, invece, quella era vecchia, e alla fine era pure morta di crepacuore per la paura.

Martino non aveva fratelli e non aveva mai avuto paura di niente. Con Cecilia abitavano in una casa dei ferrovieri, quasi in Città Studi. Di figli non ne erano poi arrivati, non due come sognavano e neppure uno; la casa era rimasta nido vuoto. Allora la paura era arrivata e si era presa anche Martino; Cecilia non sarebbe diventata madre; nessuno, dopo di lui, avrebbe più immaginato quei suoi rumori scritti in bel modo sul quaderno verde.

Martino era liquido vuoto senza germogli, la colpa era sua.

Leggere e scrivere di padri è sempre difficile. Così, su due piedi, mi vengono in mente padri più complessi che non riposanti. Ho letto del padre de Il Male Oscuro di Giuseppe Berto, e ancora provo angoscia. Ho letto della vita e della morte di un ingegnere, insieme ad Albinati. Ho letto con Magrelli della matassa di ricordi che avevano preso forma nella Geologia di un padre. Da poco ho anche letto Domani è domenica, della scrittrice svizzera Sandrine Fabbri, dove il padre è faticoso, lontano, muto, quasi tratteggiato per sottrazione alla figura materna, che è pazza e sofferta. Quello della Fabbri è un romanzo che taglia, ma che va letto quasi rimanendo in sospensione, fino a che non si arriva all’ultima parola. Da lì si può ricominciare a respirare, lasciando quei genitori nelle pagine scritte perché sofferenza e pena trovino requie.

Ma di padri che padri non sono stati, non sono e non saranno per loro difetto ho letto poco, forse nulla. Di quegli uomini che padri vogliono essere ma che anche devono diventarlo per filogenesi, per desiderio di chi sta loro attorno, per costume, ecco di questi futuri padri per necessità non ho ricordi precisi nelle lettere. È di loro che voglio raccontare, dei Martino, dei Mario e di tutti quelli che papà non saranno mai perché non possono, e che mai potranno puranche bestemmiando il cielo.

Non è certo una rivalsa sessista la mia, una crociata lancia in resta per i padri non padri, per gli uomini sterili – scandiamola bene questa parola, lettera per lettera, dando i giusti spazi e delle pause che sottolineino la rapina affettiva, la privazione di gioia, il senso di incompiutezza della persona, la presenza per assenza, i tessuti del corpo che si lacerano, cellula dopo cellula, e fin giù, giù alle proteine e ancor più nel profondo, ai geni, quegli stessi che ci sono arrivati da due prima di noi, quelli che abbiamo chiamato mamma e papà finché sono venuti meno. Perché sterile vuol proprio dire questo: impossibilità; incapacità; inadeguatezza; insufficienza; inidoneità. Però di tutto questo si parla in prevalenza al femminile. Prendete L’Arminuta di Donatella di Pietrantonio, il romanzo, sì meraviglioso, della ragazza che ritorna al paese; io l’ho vissuto come fosse uno scritto sulle madri, perché ve ne sono due, raccontate tra il dolce e l’amaro, ma il tutto nasce dalla sterilità di uno dei padri, perché anche di quelli ce ne sono due, quasi tre.

Per tutti questi motivi, e altri ancora, sento il bisogno che d’infertilità si narri anche al maschile, per poter arrivare a confrontarci con lo spettro della morte e dell’impossibilità a perpetrarci, ad andare oltre quelle colonne d’Ercole, con serenità, o con rabbia, se ciò aiutasse.

Martino i singhiozzi di Cecilia li aveva poi scritti nel suo quaderno, e quelle ortiche si erano prese perfino il suo di pianto, che era muto, acqua senza sale, proprio come il suo seme senza vita.

Andrea Solonia

L’AUTORE E IL SUO PRIMO ROMANZO – Andrea Salonia è urologo e andrologo, e si occupa di ricerca traslazionale in ambito di Medicina sessuale e della riproduzione. Per Mondadori Electa ha pubblicato Domani, chiameranno domani. Il libro racconta dell’ingegnere Augusto C, uomo metodico, rigoroso, arido di parole, e pugliese di Manduria, cittadina nel Salento meno noto. Augusto C. è stato il direttore della fabbrica di acciaio più grande d’Italia; accusato di una continuativa e consapevole forma di disastro ambientale da sversamento di sostanze nocive nell’aria, adesso è agli arresti domiciliari. Anche nel suo romanzo il padre è figura chiave, contadino e infermiere, libero nell’animo in sella alla sua Bianchi azzurro del cielo. Ecco – dice un Augusto – questi sono gli arresti domiciliari, rallegrarsi che il proprio padre sia già morto.

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