Intervista a Bruno Morchio autore di Rossoamaro ISBN:9788811686361

In Rossoamaro, il nuovo romanzo di Bruno Morchio, il detective genovese Bacci Pagano si trova coinvolto in un’indagine che prende le mosse dalla Genova del 1944 popolata di soldati tedeschi, fascisti, partigiani e spie, dove i suoi genitori e il nonno Baciccia lavoravano come operai e Nicla serviva alla mensa dell’Ansaldo Fossati. L’immagine della giovane, informatrice della Resistenza infiltrata presso i nazisti, si sovrappone a quella di Jasmìne, prostituta nera fuggita da una terra senza speranza. E anche la città dilaniata dalla guerra, dalla miseria e dalla fame si confonde con la metropoli contemporanea, investita dal vento della globalizzazione. Attraverso Bacci Pagano – “analfabeta dei sentimenti” che ama le donne e ha per inseparabili compagne una Vespa amaranto e una Beretta calibro 9 che usa il meno possibile – Bruno Morchio esplora e racconta magistralmente l’Italia di allora e di oggi. Rossoamaro affronta una delle pagine più drammatiche della nostra storia recente e fa riflettere sulla violenza del potere e su quella di chi lotta per la propria libertà e dignità, sul rapporto tra vittime e carnefici, sul ruolo delle donne nella nostra società. Ne abbiamo parlato con l’autore.

D. Come mai le storie che riguardano la Seconda guerra mondiale continuano a interessare scrittori e lettori?

R. Perché in questi anni di regressione economica, culturale e civile, abbiamo ascoltato molte argomentazioni tartufesche volte a negare il significato storico della Resistenza, senza dichiararlo apertamente. Dalle tesi “attesiste” sulla presunta viltà dei partigiani che colpivano e poi fuggivano alla tortuosa tesi del “rispetto di tutti i morti”, che surrettiziamente pone sullo stesso piano chi si è battuto per la libertà e chi ha scelto di affiancare le truppe di Hitler.

D. Quanto è importante il passato per Bruno Morchio?

R. La memoria e la sua conservazione sono una delle buone ragioni che danno dignità al lavoro dello scrittore. Non parlo soltanto della memoria personale, privata, ma anche di quella storica, con la quale la prima è strettamente intrecciata. Il libro racconta una vicenda immaginaria, ma assolutamente plausibile, attingendo alle fonti storiche ma soprattutto alla memoria dei sopravissuti e al ricordo dei racconti di mio padre, operaio allo stabilimento Fossati, e di mia madre, nata a Borzoli e cresciuta a Sestri Ponente “la rossa”. Una storia che si inscrive nelle attività dei GAP a Genova, culminante nell’attentato al cinema Odeon di via Vernazza il 15 maggio 1944. Narra di un’esecuzione partigiana che si rivelerà un tragico errore. Ho volutamente affrontato un episodio oscuro perché credo che il punto sia non negare errori (e orrori, che pure vi sono stati), ma tenere fermo il principio che solamente a quelle condizioni (colpire e scappare, colpire prima del nemico) si poteva combattere quella guerra. Ciò che molti critici revisionisti fingono di ignorare è la lezione che il vecchio partigiano, uno dei personaggi del libro, trae ripensando alle scelte di sessant’anni prima: “Vuoi dire che avreste potuto aspettare seduti sulla riva del fiume?” chiede Bacci Pagano. “Al contrario”, risponde il comandante gappista, “sentivamo l’obbligo di dimostrare che stava nascendo una nuova nazione. L’unico modo per farlo era combattere, e il prezzo da pagare uccidere o morire. Una nazione non nasce quando un esercito di occupazione ne scaccia un altro”.

D. E per Bacci Pagano?

R. Direi altrettanto. Del resto, Rossoamaro racconta un’indagine che Bacci definisce “rovistare nell’album di famiglia”. Oggi si fa un gran parlare della famiglia, talvolta in senso reazionario e mistificatorio. La famiglia può anche essere la casa degli orrori, ma per molte persone, come Bacci (e come me), essa è stata soprattutto veicolo di trasmissione di solidi valori-guida della vita. Come dice Jasmìne al detective: “Sei fortunato, loro ti hanno lasciato qualcosa”.

D. Ritiene dunque che abbia ancora un senso occuparsi della lotta partigiana?

R. La lotta partigiana è stata una cosa seria, probabilmente il primo vero risorgimento popolare che l’Italia abbia conosciuto, e coloro che ci ricamano sopra per equiparare le parti in conflitto, magari adducendo episodi deplorevoli che pure si sono verificati, compiono una grossolana mistificazione storica.

D. Quanto sono simili Jasmine e Tilde?

R. La prostituta ivoriana e la staffetta partigiana sono personaggi molto diversi sul piano psicologico, ma sono accomunati da un destino femminile segnato dalla violenza e dalla sopraffazione. Sempre il vecchio capo gappista, verso la fine del romanzo, afferma di essersi sbagliato credendo che certi orrori non si sarebbero più ripetuti, e rimarca la differenza tra allora e oggi: c’è stato un periodo storico nel quale si pensava che la salvezza e il benessere di ciascuno fosse legato a quello di tutti. Quel tempo sembra ormai finito e oggi assistiamo a una sconsolante guerra tra poveri: il ceto medio proletarizzato si sente minacciato dalla concorrenza degli emigrati, l’odio e la paura ingrassano le destre e stanno imbarbarendo il paese, e purtroppo non mi sembra che la solidarietà cristiana sia riuscita a tamponare gli effetti culturalmente devastanti della fine di quella che si chiamava “solidarietà di classe”.

D. Jasmìne e Tilde sono donne forti o deboli? Le fanno tenerezza o pena?

R. Sono forti, fortissime, e degne di ammirazione e pietà (che è cosa diversa dalla pena).

D. Le storie che sta costruendo negli ultimi romanzi sembrano appartenere sempre meno al genere. Stufo del noir?

R. Al contrario, è mia ferma intenzione far vivere Bacci a lungo, ma è vero che sto lavorando a un romanzo senza di lui. Credo che sia fisiologico e comunque le sfide mi sono sempre piaciute. Ci tengo però a precisare che tale scelta non contiene alcun implicito giudizio di valore: rimango dell’idea che alcuni dei migliori scrittori italiani siano autori di noir.

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