“La bambina che amava troppo i fiammiferi” di Gaétan Soucy, scrittore canadese scomparso nel 2013, racconta la storia di due fratelli (o meglio, un fratello e una sorella) che hanno sempre vissuto segregati in un castello a causa di un padre tiranno e violento. La voce che narra la vicenda si esprime con parole grezze, inesatte, che oscillano di continuo tra il volgare e il lirico, dando vita a una fiaba nera che intriga e allo stesso tempo spaventa il lettore…

“Che altro fare se non scrivere in questa vita? D’accordo, d’accordo, ho detto ‘le parole: bambole di cenere‘, ma anche questo è ingannevole perché alcune, quando sono ben allineate in frasi, ci danno una vera e propria scossa al contatto, come se si posasse il palmo su una nuvola proprio nel momento in cui è gonfia di tuono e sta per scoppiare. È la sola cosa che mi aiuti, questa. A ognuno i suoi espedienti”.

A scrivere è la voce narrante del breve romanzo La bambina che amava troppo i fiammiferi (Marcos y Marcos, traduzione di Francesco Bruno) di Gaétan Soucy, scrittore canadese scomparso troppo presto, nel 2013, lasciando un’opera teatrale e quattro romanzi, tra cui Music Hall! e L’assoluzione (sempre pubblicati da Marcos y Marcos).

Parliamo di voce narrante e non di un personaggio definito perché, fino a metà del libro, al lettore non è dato conoscere la sua identità, né il suo sesso. Da come racconta di sé, questa voce sembrerebbe essere un maschio, ma in seguito si rivela una giovane ragazza. Non ha un nome, dimostra circa diciassette anni e ha i capelli selvaggi e odorosi di pioggia.

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Viene da un castello, laggiù, oltre la pineta, dove ha sempre vissuto segregata con padre e fratello. Padre è morto all’improvviso, una mattina poco prima dell’alba, ed è per questo che la ragazza si è allontanata dall’abitazione, per la prima volta in vita sua. Infatti, non ha mai visto altri esseri umani, eccetto i famigliari e un medicante che, di tanto in tanto, si recava al castello, le pizzicava le guance e si stendeva sopra di lei. 

È cresciuta con il naso in mezzo a quelli che lei chiama dizionari (ma che poi si scoprono essere romanzi cavallereschi), da cui ha imparato cos’è l’amore, soprattutto quello per le parole. Le sue, quelle con cui scrive tutta la storia in una sorta di diario/testamento, sono parole grezze, inesatte, parole che non sono mai entrate a contatto con la realtà e che oscillano di continuo tra il volgare e il lirico: come se fossero una poesia sporca di fango.

Perché dietro quel misto di versi, termini arcaici e espressioni scurrili, si nasconde un mistero inquietante, un passato fatto di violenza e soprusi, che si intreccia e da vita a una fiaba nera. Proprio come i racconti antichi dei fratelli Grimm, La bambina che amava troppo i fiammiferi è un thriller gotico dai tratti incantati e orrorifici, che intrigano e allo stesso tempo suscitano terrore, spingendo il lettore fino alle oscurità della cantina del castello dove, incatenato al muro, c’è un segreto che aspetta di venire alla luce. 

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