Nell’ultimo memoir “Il canale dei cuori”, uscito postumo, il papà di Vittorio ed Elisabetta trova nel racconto un espediente che lenisce il dolore per la morte della moglie amata, affidandone l’attesa alla pace del fiume Livenza, al firmamento, alla fede e alle peripezie di una vita

Giuseppe “Nino” Sgarbi, classe 1921, non ha fatto in tempo a vedere stampato il suo ultimo libro, Il canale dei cuori (Skira), un elegante memoir uscito postumo l’8 febbraio scorso nel quale l’autore torna sulle sponde dell’amato fiume Livenza, dove per tanti anni è andato a pescare, per tracciare con gioiosa freschezza un bilancio della sua vita lunga quasi un secolo. Il papà di Vittorio ed Elisabetta se n’è andato il 23 gennaio scorso a Ferrara a 97 anni. “Per novant’anni sono rimasto in silenzio. Cosa ho fatto? Ho ascoltato”, scrive. Negli ultimi cinque anni si è deciso (finalmente) a cimentarsi con la scrittura, grazie al pressing della figlia Elisabetta, fondatrice de La Nave di Teseo. Sono nati quattro libri, dall’esordio, a 93 anni, con Lungo l’argine del tempo fino al toccante Lei mi parla ancora, uscito nel 2015 e dedicato all’amata moglie Rina da poco scomparsa.

Il canale dei cuori giuseppe sgarbi

Sgarbi senior non si è mai sentito scrittore fino in fondo. Ha ceduto alle lusinghe di Elisabetta e si è messo a raccontare mettendo ordine nell’affastellarsi di ricordi, persone, aneddoti di una vita tutta trascorsa tra il bancone della sua farmacia, a Ro, e il Livenza, sulle cui amate sponde riprende il dialogo con Bruno Cavallini, letterato di professione e fratello della moglie Rina, morto nel 1984. Fu proprio grazie a lui, con il quale parlava di cultura e dilemmi esistenziali (“che sgusciavano da tutte le parti come anguille”), che la casa degli Sgarbi divenne un ritrovo di intellettuali, da Giorgio Bassani ad Alberto Moravia fino a Umberto Eco. “E così, mi sono arreso”, nota, “ho aperto la cassapanca dei ricordi e ho cominciato a tirarli fuori, lucidarli e metterli in ordine, come facevo da bambino con i soldatini, quando cercavo di dare ai condottieri e agli eserciti sfortunati ma simpatici le soddisfazioni che la Storia aveva loro negato”.

Domina, nel racconto-confessione di Giuseppe Sgarbi, la meraviglia per la vita, il lucido realismo, il senso del limite, la concretezza del vivere e un senso di profonda umiltà che gli fa dire, rivolto a Bruno, in un dialogo impossibile eppure vivido: “Sapessi dire io le cose come le dicevi tu”. O ancora: “C’è una strada certa per la solitudine, Bruno: essere intelligenti, intellettualmente onesti e liberi. E tu eri tutte e tre le cose insieme”.

Nessuna presunzione d’insegnare qualcosa, solo il gusto di raccontare. E, soprattutto, lenire il dolore per la morte dell’amata moglie Rina, la vera protagonista di queste pagine. “Perché”, scrive Petrarca, “cantando il duol si disacerba”, si fa meno amaro e angosciante. In fondo, per Giuseppe Sgarbi la scrittura è un modo per amare ancora la sua compagna di tutta una vita, rievocarla, dichiarare di aspettarla ancora, prepararsi all’ultimo incontro e affidare quest’attesa alla pace del fiume, alla bellezza del firmamento, a una fede cristiana mai esibita eppure profonda perché vissuta. È stata l’assenza della Rina, confessa l’autore, a far perdere magia a tutto, per un motivo “vincolante e impossibile da aggirare: la magia era lei”.

 

 

 

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