Lo scrittore Gabriele Di Fronzo suggerisce un nuovo modo di superare la perdita di una persona amata, grazie alla letteratura: “Cosa faremo di questo amore. Terapia letteraria per cuori infranti” è un manuale per curare il mal d’amore con un buon libro… – Su ilLibraio.it tre brani

Sin dal giorno in cui Elena lasciò Menelao per far rotta alla volta di Troia, diversi episodi, mitologici e letterari, hanno seguito l’esempio di quell’abbandono ancestrale: Ulisse abbandona Calipso, Enea abbandona Didone e così a seguire nella letteratura più moderna, nei personaggi di Tolstoj, Flaubert, Carver e Bolaño. Sono innumerevoli gli episodi, in prosa e in poesia, che descrivono le conseguenze strazianti dell’abbandono, la sofferenza dell’innamorato e il suo smarrimento; sono ben poche, invece, le pagine dedicate a come superare la perdita della persona amata, come raccogliere i cocci di un cuore infranto e rimetterli insieme.

gabriele di fronzo cosa faremo di questo amore einaudi

Scrittore torinese, classe ’84, Gabriele Di Fronzo individua nella letteratura stessa un’ancora di salvezza: quelle stesse opere che mettono il lettore davanti alla disperazione dell’abbandono amoroso sono poi le stesse che aiutano a salvarsi da quegli stessi abbandoni. Nel volume Cosa faremo di questo amore. Terapia letteraria per cuori infranti (Einaudi) Di Fronzo suggerisce la lettura come migliore cura per il mal d’amore, non soltanto attraverso l’immedesimazione, che tocca e commuove, ma grazie alla riflessione, che permette di riflettere quanti altri personaggi, fittizi o reali che siano, sono stati nella stessa situazione. E ce l’hanno fatta.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it tre brani dal libro:

7. Aspettiamo i pennarelli.

Ai bambini, tra le prime cose che s’insegnano a scuola, ci sono i concetti di dentro e di fuori. All’asilo le maestre usano circonferenze e quadrati, fanno colorare negli spazi, nei triangoli e nei rettangoli, suggeriscono ai piccoli allievi di stare bene attenti alle linee dei poligoni e di rimanerci dentro col pennarello rosso e di usare, invece, l’azzurro per quel che c’è fuori. Riempire di rosso l’area delimitata del tetto della casa e usare l’azzurro per il cielo, senza fuoriuscire, senza sbavature. Ugualmente, agli adulti dovrebbe essere insegnato come sia lo stare dentro e lo stare fuori da una relazione. Il miglior modo di entrarci, magari anche qui con i colori, che spesso aiutano a semplificare le cose piú difficili da comprendere. Ma soprattutto se esiste il miglior modo per uscirne. Non ci sarebbero cosí donne come la protagonista de Il fiume di Julio Cortázar che trascorre le notti nel letto del suo uomo, ma minaccia continuamente di buttarsi nell’acqua della Senna, né esisterebbero uomini come Pavel Pavlovic, L’eterno marito di Fëdor Dostoevskij, costretto a rivalutare la condotta della sua defunta moglie quando trova in un cassetto della scrivania lo stipetto d’ebano con intarsi di madreperla e d’argento in cui lei, Natalia Vasil’evna, ha conservato per vent’anni l’anticaglia delle sue corrispondenze fedifraghe. Niente male. Da lettore, una volta ammirate le gesta dispari dei personaggi di questi racconti, posso dire di non aver imparato nulla al riguardo. Aspettiamo dunque i pennarelli, iniziamo con quelli a punta fine e poi, quando ci vedremo migliorare, chiediamo se cortesemente ci concedono quelli a punta grossa.

8. In un cielo stazzonato dal favonio.

Trent’anni fa l’antropologo David Givens e il biologo Timothy Perper trascorsero centinaia e centinaia di ore partecipando ad aperitivi e feste in bar e locali notturni per osservare il modo in cui gli uomini e le donne si scelgono e si corteggiano. Senza dar nell’occhio spiarono gli approcci, i flirt, i primi appuntamenti. C’è un galateo di sopraccigli inarcati e capelli sfiorati, pance tirate in dentro e pettorali gonfiati, tra chi si sta innamorando. Esiste un rituale con cui dialogano gli amanti, e anche  questo vanta le sue norme. Unicamente per mia personale soddisfazione, visto che c’è da riconoscere che mi sia richiesto di ballare e bere molto meno di quanto non sia toccato agli altri due, vorrei completare il loro lavoro d’investigazione. Immischiato tra le storie piú infelici scopro come, dopo essersi impudentemente scelti e corteggiati, gli uomini e le donne si lasciano, dimenticandosi l’un l’altra nell’oscurità di una lunga distanza. Devo solo scorrere le pagine di questo o quel libro finché il mio cuore non accelera lievemente i battiti e l’emicrania mi preme le tempie. C’è chi scappa alla vigliacca, come i topi sui transatlantici prima che la nave affondi. E c’è chi va via con quel passo furtivo che finisce col dare nell’occhio piú che una fuga a gambe levate.

A chi lascia il piú delle volte riconosco la stessa tempra, la stessa raffinata caparbietà di chi fa portare indietro un piatto al ristorante. Altre volte un po’ meno. Sono un maniaco che ispeziona il cadavere di un delitto che ormai non può piú essere risolto, il piú inutile dei lettori, la cui inquietudine è soprattutto quella di non poter prestare soccorso a chi dei due è avvoltolato dalle bende piú vistose. Se la ragazza con cui, in un’alba estiva e dopo tre mesi di tentativi e fraintendimenti, è riuscito ad appartarsi il ragazzo del racconto Oltre i tetti di Kevin Barry, se questa ragazza dopo un bacio solo accennato lo respinge, premendo delicatamente la punta delle dita sul suo petto, io a parte guardare non posso davvero fare nulla. Gli abbandonati mi girano attorno come cani affamati cui non posso metter niente nella ciotola. Quando Verena Kuster, La vecchia vanesia di Fleur Jaeggy, il giorno delle loro nozze d’oro spinge giú dalla finestra il marito Kurt, perché a suo dire tutto si guasta, anche il suo matrimonio felice, io atterrisco davanti alla caduta dell’uomo in un cielo stazzonato dal favonio e mi sgomento quando scopro che, súbito dopo, lei è seduta in poltrona, pronta a ricevere le condoglianze dei condomini. Sono tutto tranne che impassibile, tutto fuorché cinico, eppure, parafrasando Giorgio Manganelli, non ho che la mia prolissa incompetenza: viviseziono cosí in modo quasi anatomico le forme dell’addio che a volte sono lampi e altre pulviscolari. Non risolvo il delitto, insomma, ma posso tentare di decifrarlo.

9. I letti in cui si è smesso di dormire.

A François Truffaut, che gli chiese se i sogni che faceva avessero mai ispirato il suo cinema, Alfred Hitchcock raccontò beffardamente l’unica occasione in cui si era alzato nel bel mezzo della notte, convinto che il sogno appena concluso contenesse un’idea buona per un film. Era un po’ che teneva per quest’evenienza un quadernetto e una penna sul comodino. Si era tirato su dal letto, aveva preso l’appunto e si era riaddormentato. La mattina, al risveglio, quel che trovò scritto fu «Boy meets girl». A me, lo dico con una voce che tradisce tutta la mia nostalgia, quando toccherà svegliarmi dall’incubo in cui l’innesco che battezza ogni racconto è «Boy leaves girl»? Riuscirò una
sera a prendere sonno, leggendo la proposta di Georges Perec in Specie di spazi per una biografia sulla base dei letti in cui si è dormito, senza vaneggiare sul fatto che il criterio piú adatto per un simile libro sarebbero, al contrario, i letti in cui si è smesso di dormire? Qualunque individuo in buona salute mi farebbe notare che si tratta evidentemente della stessa cosa. Invece, mio malgrado, continuo a essere il primo spettatore delle sedute spiritiche in cui vengono evocate le evanescenze delle dolcezze di ieri, tra sospiri e carezze, convulsioni e singhiozzi. La mia monomania è per metà timida paranoia e per l’altra prudente follia: un mistero sempre in agguato che va da Didone, la regina di Cartagine che si toglie la vita perché «rosa dal dispetto quando si avvede che il compagno la respinge», al protagonista del romanzo Lontano da Odile di Christian Oster che per finirla una volta per sempre con la ragazza che l’ha lasciato, dà il suo nome alla mosca che gli infesta casa e la rincorre notte e dí con il giornale in mano.

(Continua in libreria…)

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