Dopo il successo di “Viva il latino”, ecco il nuovo saggio di Nicola Gardini, “Con Ovidio”, che racconta uno dei più grandi poeti della latinità… – Su ilLibraio.it un capitolo, dedicato ai classici, che possono insegnare il valore dell’ospitalità

Dopo il successo di Viva il latino, Nicola Gardini torna in libreria con un nuovo saggio, Con Ovidio (sempre pubblicato da Garzanti)dedicato a uno dei più importanti autori della latinità classica, protagonista di un’esistenza ricca e teorico del gioco amoroso.

Ovidio è uno degli autori classici più letti e fortunati dell’antichità, tanto che la sua fama non ha mai attraversato periodi bui; è noto soprattutto per le Metamorfosi, ma era un autore poliedrico, molto portato per la poesia d’amore, che ha ampiamente teorizzato e praticato.

Anche la sua biografia è avvincente, carica del fascino dell’artista in difficoltà, che grazie alla sua penna raggiunge la gloria; ma la gloria non è destinata a durare e, in seguito a un incidente ancora misterioso, Ovidio finisce esule al limitare dell’impero romano, il confine del mondo allora conosciuto.  In questo libro l’autore molisano, dottore in lettere classiche e professore di letteratura italiana e comparata presso l’Università di Oxford, accompagna il lettore nella ricostruzione dell’esistenza e della personalità di uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, un classico che ha ancora molto da dire. 

Per gentile concessione dell’editore su ilLibraio.it pubblichiamo un capitolo del libro:

Che cos’è un classico? Semplice. Un classico è un classico, cioè quello che tutti leggono, o hanno letto, o fingono di aver letto; quello che sta su uno scaffale della nostra libreria chissà da quanto e quando, e chissà perché; quello che si trova nelle storie letterarie della scuola; quello che esiste anche senza di me.

Generazioni e generazioni lo fanno esistere da tempo immemorabile. Il classico è cosa di altre epoche, no? Io, dunque, che c’entro? Ma poi, un giorno, una sera, magari una domenica, lo si tira giù dalla libreria, il classico, e si comincia a leggere. E subito si capisce dove si è finiti e dove troppo a lungo ci si è proibiti di andare. Un classico è un castello. Di più: una città. Insomma: una costruzione grande, immensa, che lascia a bocca aperta.

Tuttavia, per quanto accogliente sia il classico che ho tra le mani, per quanti ci siano già passati, generazioni e generazioni, io, qui, sulla mia poltrona, ho la pretesa di entrarci da solo, di esserne lo scopritore. Anzi, in questo castello o città o costruzione immensa io ci sto passando per primo. E ammiro, non faccio che ammirare, quasi stessi assistendo all’inizio della creazione. Prima che un libro o una scrittura o un autore, un “classico” è un modo di pensare e di raccontare il mondo. È il viaggio di un’idea e il materializzarsi di questa in figurazioni varie, perfino difformi, che costituiscono alla fine un universo di sensi e di valori, oltre che l’opera gloriosa di una mente.

Ma quale mente è solo sé stessa? Quale individuo agisce in perfetto isolamento?

Il viaggio dell’idea avviene in compagnia, guadagnando, via via che progredisce, sodali e guide, del presente così come del passato; e questi indicano strade e suggeriscono soste e avventure, dando all’itinerario più direzioni, moltiplicando a ogni passo il numero delle possibili mete. Un classico, insomma, contiene moltitudini, per riprendere la famosa frase di un poeta americano; e questo lo distingue da qualunque altro tipo di scrittore.

Un classico sta nella varietas. Senza varietas non si dà classico, non si dà quel miscuglio di unità e complessità che ne è la prerogativa principale e che impone al lettore di avere sul naso contemporaneamente il microscopio e il cannocchiale. Il classico si costruisce ed esiste variando, e noi lettori abbiamo il compito necessario di capire la varietà, di ripartirla in certe immagini e di ridurre queste a certe metafore unificanti e di riportare le metafore a una matrice originaria. E da lì poi ripartire, ritornare nei meandri dell’opera, con accresciuta felicità, sempre pronti a rifare il tragitto avanti e indietro e convinti di individuare ogni volta nuove derivazioni e direzioni.

Un altro elemento essenziale: il classico sta in un passato lontano. Capirlo comporta anzitutto l’apprendimento e l’accettazione di contesti assai differenti, la cui pretesa somiglianza con i nostri può solo produrre illusioni e falsificazioni. Ma capire che un classico viene da lontano è, alla fine, ancora più che esercizio del senso storico e della capacità di relativizzare qualunque valore, anche quelli che sembrano più assoluti: è esperienza stessa della lontananza. Le parole del classico, che oggi ci parlano da una qualunque edizione economica o scolastica e non sembrano di primo acchito dire niente di straordinario e rischiano di confondersi subito tra i discorsi del nostro mondo audiovisuale, hanno viaggiato per secoli prima di arrivare a noi e hanno affrontato ogni sorta di aggressione.

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Ovidio ci è arrivato praticamente intero. Ma molti classici no. Sono stati feriti e menomati e non hanno più l’aspetto originario. Alcuni sono spariti del tutto strada facendo. Quando apriamo una qualunque edizione moderna di un classico, noi non apriamo semplicemente un libro: noi apriamo le braccia a un sopravvissuto. E, leggendo un classico, compiamo il gesto più civile che un essere umano possa compiere: diamo ospitalità allo straniero; gli offriamo la nostra casa e ci mettiamo ad ascoltarlo. E lo straniero non viene senza doni. Fosse anche solo un verso quello che ci resta della sua opera, quel verso è un miracolo della fortuna. Se bussa alla nostra porta, abbiamo il dovere di riceverlo, a qualunque ora del giorno e della notte. Negargli l’ascolto significherebbe favoreggiare quella violenza irrazionale – ma spesso intenzionale – che nei secoli ha disperso i quattro quinti della letteratura antica e che oggi, in vario modo, continua ad agire tra noi e nullificherà, se non ci opponiamo, molte delle nostre cose migliori. Noi dobbiamo opporci alla violenza.

Accogliendo l’antico, faremo simbolicamente resistenza a qualunque sopruso. I beni che provengono dal dare ospitalità sono meravigliosi. Non solo lo straniero è soccorso e salvato e, dunque, molto probabilmente ci resterà amico, ma noi, con lui, diventiamo nuovi. Attraverso lo straniero, nella nostra stessa casa, entriamo in contatto con un mondo che non conoscevamo. E la scoperta di una realtà diversa, oltre a produrre piacere di per sé, ci rende forti attraverso un aumento della conoscenza.

(Continua in libreria…)

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