Arriva in libreria “Il contrabbandiere di parole” di Natalio Grueso, un romanzo ricco di personaggi, tra cui un prescrittore di libri. A lui è dedicato l’estratto proposto da ilLibraio.it: “Prescrivo libri, come altri prescrivono medicine o esorcismi, oppure fondi d’investimento…”

È in libreria, per Salani, Il contrabbandiere di parole di Natalio Grueso, direttore del Teatro Spagnolo e delle Arti sceniche della città di Madrid, che si cimenta per la prima volta nella scrittura di un romanzo. Il libro è un viaggio delicato nei nostri sentimenti, un’avventura di fantasia in cui confluiscono il desiderio, la gratitudine, la giustizia e i sogni. Nelle sue pagine transita un manipolo di personaggi come l’affascinante ladro Bruno Labastide, il prescrittore di libri, il cacciatore di sogni e la giovane giapponese dagli occhi color del miele che, ogni notte, sfida il destino dal suo appartamento veneziano. Questa storia ci trasporta da Parigi a Buenos Aires, da Venezia all’Indocina, rendendoci complici dell’itinerario esistenziale dei suoi protagonisti che, pur sembrando perdenti solitari, in realtà raggiungono, senza quasi esserne consapevoli, l’obiettivo più alto a cui l’uomo può aspirare: rendere felici gli altri.

Per gentile concessione di Salani, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro:

Lo trovò per terra, davanti a una farmacia in calle Esmeralda, mentre si recava a Maipú. Un pacchetto regalo abbandonato, dimenticato per strada. Si guardò attorno, cercando due occhi che incrociassero i suoi e reggessero il contatto per più di tre secondi. In realtà era quello che cercava da tutta la vita. Ma non accadde nulla.

Chi aveva perduto quel pacchetto doveva essere già lontano. Riusciva a immaginare la sua arrabbiatura, la sua sorpresa quando si fosse accorto dell’errore, e il processo mentale automatico a ritroso, nel tentativo di ricordare ogni passo, di ricostruire il percorso, chiedendosi dove diavolo l’avesse lasciato.

Era un libro, o almeno così sembrava, e Horacio pensò con ironia che il destino non avrebbe potuto scegliere nessuno di più adatto a ritrovarlo. Lui, Horacio Ricott, il ‘prescrittore’.

“Mi scusi, ma temo di non aver capito bene”.

Horacio Ricott abbozzò un sorriso, finì il suo caffè e si accomodò sulla sedia guardando la ragazza.

“Esattamente questo, sono un ‘prescrittore’, prescrivo libri, come altri prescrivono medicine o esorcismi, oppure fondi d’investimento. Io prescrivo libri.”

“In altre parole, è un libraio, o qualcosa del genere, giusto?”

“No, no, la prego. Un libraio compra e vende libri, li classifica, li mette in magazzino, li restituisce alle case editrici oppure se li tiene, a seconda del libraio. Invece io non compro e non vendo, e non tengo nulla in magazzino. Io mi limito a raccomandarli, li prescrivo, tutto qui.”

La ragazza si morse il labbro, e quello era un gesto che eccitava profondamente Horacio. Lo faceva sempre quando c’era qualcosa che non capiva, oppure quando aveva bisogno di pensare, e il prescrittore lo trovava assolutamente irresistibile. Come i suoi denti bianchissimi e le gote rosate che si disegnavano su quel visino di porcellana e gli occhi verdi come i mari che lambivano altre città che non erano Buenos Aires. Questo, come tante altre cose, Horacio l’aveva imparato sui libri.

“Davvero, non avrei mai creduto che qualcuno potesse dedicarsi a un’attività del genere” rispose la ragazza.”Lei è il primo prescrittore di libri che abbia mai conosciuto.”

Lui sorrise soddisfatto con gli occhi miopi dietro i grossi occhiali di corno.

“Comunque” insistette lei, “non mi è ancora del tutto chiaro. Posso farle qualche altra domanda?”.

“Ma certo, ci mancherebbe altro”.

“Questa attività che lei svolge… serve a qualcosa?”

Lo sguardo di Horacio cambiò del tutto, come se una spina infinitamente dolorosa gli si fosse conficcata in fondo all’anima. Scosse la testa a destra e sinistra, senza perdere il contatto visivo con la ragazza. Lei attendeva una risposta con aria sfrontata e – perché negarlo? – più bella che mai.

“Senta, signorina” disse Horacio con tono fermo, “finora ho salvato tre matrimoni e un adolescente dal suicidio. Credo che il mio lavoro sia stato già molto più utile di quello della maggior parte di voi”.

Pronunciò quel ‘voi’ con evidente intenzione, come se volesse vendicarsi della sfacciataggine e dell’insolenza della ragazza, e di chiunque avesse un lavoro tradizionale e per questo stesso motivo lo considerasse alla stregua di un pazzo.

Lei lo guardò serissima, sembrava arrabbiata, e l’arrabbiatura la rendeva persino più attraente. Horacio pensò che avrebbe potuto perdere la testa in qualsiasi momento per quella donna che aveva la metà dei suoi anni, che poteva essere sua figlia, e questo pensiero anziché scoraggiarlo lo eccitò ancora di più. Gli occhi verdi della ragazza si conficcavano nei suoi, gli occhi tristi dietro le lenti spesse di un cinquantenne che aveva trascorso la vita a cercare uno sguardo che reggesse il contatto per più di tre secondi e lo invitasse a varcare la soglia.

“E tu” chiese lei, “che libro mi prescriveresti?”.

Lui deglutì a fatica, senza lasciarsi sfuggire che gli stava dando del tu per la prima volta. Cercò di far lavorare il cervello a marce forzate, ma era come bloccato. Non riuscì a reprimere una risata interiore. Guarda un po’, finalmente un argentino che rimane senza parole, si disse.

Si potrebbe invocare l’attenuante del nervosismo, persino dell’alienazione mentale transitoria o dell’innamoramento, che in fondo è un po’ lo stesso. Il fatto è che sotto la pressione di quelle labbra – ormai non guardava più la ragazza negli occhi, ma le guardava solo la bocca –, gli sfuggì una stupidaggine: “Ti prescriverei un romanzo d’amore” balbettò con l’esitazione di uno studente sorpreso impreparato.

Lei fece un cenno vago, quasi impercettibile, ma sufficiente a farle accendere le gote. Socchiuse appena le labbra, come fosse un sospiro, lasciando intravedere i denti bianchi che Horacio si immaginava intenti a mordicchiare luoghi proibiti del suo corpo. Alla fine sorrise, inclinò la testa e guardandolo dritto negli occhi gli disse a bruciapelo: “Peccato, in realtà io preferisco le storie di sesso”.

Da questo momento in poi, il resoconto di Horacio Ricott, il prescrittore, si fa nebuloso e sconnesso, confuso, a tratti persino contraddittorio. Ed ecco che si susseguono in rapida successione una banconota posata sul tavolo per pagare le consumazioni senza aspettare il resto – con una mancia sproporzionata –, una passeggiata per le strade – o le nuvole? – di San Telmo, la piazza Dorrego sotto la pioggia d’autunno, i gradini a due a due fino al suo appartamento, i vestiti lanciati per il corridoio, l’odore di sardine alla piastra dal cortile, il cigolio delle molle del vecchio letto di ferro, il soffitto con le chiazze di umido, i suoi seni perfetti con i capezzoli duri come dita accusatrici, come lance minacciose pronte a ricordare che non si tratta di amore, che Horacio Ricott si sta immolando consapevolmente su un rogo e che con quelle gote rosate e quei seni perfetti se ne andranno tante altre cose. Ma adesso non c’è tempo per pensare a queste cose, perché i fianchi non la smettono di muoversi, e dal ventre fermo e sodo esce un calore vulcanico, l’origine del mondo, pensò Horacio, prescrivendo a se stesso un libro di quadri di Courbet.

Fu allora che pronunciò la seconda stupidaggine della serata: “Fermati a dormire”.

La risata della ragazza si sentì forse fin dentro la bottega d’angolo. Ma non disse nulla. Si alzò dal letto, nuda come una dea di seta, aprì l’armadio di Horacio rovistando tra le grucce, sotto gli occhi spaventati e passivi del povero prescrittore, prese la camicia che le piacque di più, una a quadretti rossi e neri, di quelle che portano i boscaioli dell’Alaska – Jack London, aveva pensato Horacio quando se l’era comprata quattro anni prima durante un viaggio al Calafate –, la indossò sulla pelle nuda, si aggirò per la casa come fosse sua, fece una doccia lunghissima, si vestì e se ne andò. E qui il resoconto torna a essere confuso e sconnesso, non si capisce bene se se ne andò senza salutare, se sorrise e mandò un bacio dalla porta, se si avvicinò al letto in cui il proscrittore era rimasto ancora immobile quasi fosse tetraplegico, per abbracciarlo e salutarlo, o se semplicemente si chiuse la porta alle spalle e scomparve. Ciao.

Il contrabbandiere di parole

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