“La vita sconosciuta”, il nuovo romanzo di Crocifisso Dentello, racconta la storia di un uomo che deve affrontare il dolore della perdita della moglie e i sensi di colpa per tutto ciò che non ha avuto il coraggio di dirle… – Su ilLibraio.it un capitolo

Crocifisso Dentello – classe 1978 – è uno scrittore di origini siciliane cresciuto in Brianza. Come abbiamo raccontato, dopo molti rifiuti subiti nel 2015 Gaffi ha pubblicato il suo primo romanzo, Finché dura la colpa. Ora torna in libreria per La Nave di Teseo con La vita sconosciuta, ambientato nella Milano dei primi anni 2000.

Ernesto, il protagonista cinquantenne, rincasa nel cuore della notte dopo un incontro con un gigolò arabo e trova sul divano il corpo senza vita della moglie Miriam. Avevano litigato poco prima che lui uscisse. Miriam gli rimproverava l’indolenza e la disoccupazione, che la costringevano a sostenere da sola l’economia domestica. Dolore e senso di colpa si fondono in Ernesto, che per anni ha condotto una vita di segreti e infedeltà: l’omosessualità non è l’unico segreto che non ha osato rivelare alla moglie; quando, negli anni ’70, facevano entrambi parte di un piccolo gruppo di terroristi rivoluzionari, fu proprio Ernesto a sabotare un’attacco con una soffiata alla polizia. La decisione costò la vita a uno dei membri del gruppo.

Crocifisso Dentello

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo il secondo capitolo:

Quando penso alla vita di Agata, scansionata anno per anno, accadimento per accadimento, mi illudo sempre di abbracciarla nella sua totalità, di poterne disporre con l’agio di un biografo onnisciente. Una supremazia fittizia perché trent’anni di vita comune, gomito a gomito, lasciano inesplorato il tempo che ci ha visti separati, ciascuno nella propria ristretta porzione di mondo.

Fatico a immaginarla bambina e ragazzina nei vicoli della sua Sicilia, dove lo sguardo non offre alcun conforto per un capriccio di solitudine. Fatico a immaginarla immersa in quella realtà di viscere esibite e stanate, dove anche la parola sussurrata o lo sguardo furtivo diventano patrimonio collettivo, dove nessuno slittamento interiore può dirsi al riparo dall’intrusione altrui.

Lei, che in questa Milano crudele e indifferente si era ricavata il suo cono d’ombra, come ha potuto spartire la sua anima con quel teatro permanente dove anche il pudore del nascondimento è messinscena a sua volta?

Fatico a immaginare Agata in una camera unica, coricata stretta ai suoi fratelli, senza nessun riguardo per l’intimità del raccoglimento notturno. Fatico a immaginarla aggirarsi per casa senza che un istante potesse dirsi davvero segreto se nemmeno in bagno le era possibile ripararsi visto che la chiave nella toppa non era nemmeno contemplata.

Fatico a immaginarla a pranzo in quella larga affollata tavola dove un movimento d’occhi del padre, guardiano spietato della disciplina, determinava lo spegnersi di una risata al montare di un pensiero lieve.

Fatico a immaginarla dentro quel totalitarismo siciliano di imperativi morali, di cose che si possono dire, di cose che si devono tacere, di potestà maschile capace di reprimere quella femminilità ribelle che mi toccherà conoscere qualche anno più tardi.

Eppure Agata è stata figlia di quella Sicilia arcaica e immutabile, ha respirato milioni di minuti dentro quell’aria secca e calda, ha calpestato milioni di passi su quella terra arida e insieme feconda.

Il suo primo atto di insurrezione fu proprio recidere quel soffocante cordone ombelicale con la sua terra, e dirottare il suo corpo altrove, alla volta di quel Nord che negli anni sessanta appariva la terra promessa della prosperità.

Sparire da un giorno all’altro, senza preavviso. Prendere un treno, un traghetto e poi un altro treno. Senza una parola, senza un messaggio, sparire e partire per una nuova geografia, per un nuovo destino scelto e non più subìto.

Dentro la prigione siciliana Agata era destinata ad attendere che un maschio, graziato dal benestare dei suoi genitori, gettasse il seme nel suo corpo sottomesso per poi vivere fino al suo ultimo giorno come una fattrice statica e adorante.

La sua coscienza, informe grumo di pulsioni ribelli, era ancora lontana dalle stimmate dell’emancipazione ma Agata sentiva che doveva affrancarsi da quel dominio di precetti.

Scappata nottetempo da Gela, la sua città natale, si era rifugiata da una sua una cugina nubile, in un appartamento a Quarto Oggiaro, nel cuore di quella periferia milanese che è un avamposto meridionale sotto falsa identità, una colonia di indolenza levantina a pochi chilometri dal Duomo.

Smarrirsi nella folla anonima della metropoli – al pari di un guanto perduto, di un ombrello abbandonato – senza che il suo passaggio destasse un saluto o l’identificazione di chicchessia, si era rivelata solo una metamorfosi a metà. Tutto la tradiva: la dizione con le vocali aperte, il ritmo stesso del suo eloquio, la carnagione olivastra, il modo di ferire l’aria intorno.

Dismettere i panni da isolana non le riusciva anche perché, se da una parte tentava di emulare le milanesi, dall’altra resisteva nel suo subconscio un barlume di orgoglio, come volesse assorbire il modello femminile cui ambiva ma senza stingersi completamente in esso. Un segno di contraddizione che più che rivelare un amore residuo per le sue origini era la spia piuttosto di un larvato biasimo per la sprezzatura borghese che animava le amazzoni cui comunque voleva assomigliare.

Sentiva risalirle in gola un sentimento di sdegno specie quando si imbatteva in quei cartelli appesi che recitavano “Non si affitta ai meridionali”, quando era costretta a quella umiliante via crucis per mendicare un lavoro, un qualsiasi lavoro da questi continentali che si sentivano assediati da un’orda di barbari venuti a calpestare il loro sacro suolo di freddo e
di smog.

Si era intestardita, come un’aspirante attrice a un corso di drammaturgia, a ricacciare nelle profondità del diaframma il suo accento meridionale, a levigare la sua nuova vita milanese fino al punto di annientare le sue radici, di rinnegarle in una espropriazione di identità che doveva rimuovere per sempre l’alone di forestiera che l’avvolgeva.

Un’espropriazione di identità che non poteva riuscirle completamente perché era la povertà – il destino incapacitante che inchioda le esistenze tirate su a privazioni e studi sommari – la vera zavorra di cui non poteva liberarsi. La sua catarsi si arrestava davanti a una scalata sociale preclusa. Rinnegare l’anagrafe non cancellava una condizione sempiterna: gli spiantati sono tutti uguali, a qualsiasi latitudine.

(Continua in libreria…)

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