In un mondo sempre più complesso, il racconto della realtà è ogni giorno più difficile. Ha bisogno di risorse, spazio e di idee. Ed è sempre più difficile anche per le oggettive condizioni di difficoltà dell’industria culturale. Chi, in qualche modo, ci riesce, tra mille difficoltà, però dimostra quanto valore possa avere e quanto possa essere importante – L’approfondimento sul caso di CTRL magazine

Quando si parla di cose culturali, vuoi per la congiuntura storica, vuoi per la loro stessa natura, si è abituati a storie spesso desolanti, a pacche sulle spalle, a gente che si guarda le punte dei piedi: a riviste ‘necessarie’, di ‘valore’, che si incagliano nella ricerca frustrata di un modo per stare in piedi; durano un paio d’anni, o anche meno, e poi chiudono; bravi tutti, ciao.

Menomale che ci sono le eccezioni. Una di queste è CTRL magazine: all’inizio, la rivista fondata nel 2009 a Bergamo era un giornale piccolissimo. Raccoglieva gli eventi della città e della provincia, suddivisi giorno per giorno, a mo’ di calendario, sul modello della milanese Zero. Veniva distribuita mensilmente e gratis, quindi, si reggeva interamente sulle entrate pubblicitarie degli inserzionisti locali.

Poi qualcosa è iniziato a cambiare. Prima con alcune rubriche dal taglio più narrativo di Nicola Fennino, collaboratore e, in seguito, direttore. CTRL si è concentrata sempre più spesso sui ritratti e i luoghi fuori dai radar nella forma del reportage narrativo, imprimendo una svolta nella linea editoriale e nel format del giornale. All’inizio a Bergamo, poi prima a Brescia e Milano e infine su scala nazionale, diventando a tutti gli effetti un magazine di reportage, anche online. Una specie di unicum.

Su Che Fare, Ivan Carrozzi notava come CTRL, in tutto il panorama delle nuove riviste che hanno provato a elaborare un’alternativa ai media più tradizionali, e tra tutti i nuovi modi e i vezzi di questo nuovo panorama, ha espresso una diversità sostanziale: questa si esprimeva “nel racconto di biografie e vicende di sconosciuti, collocate in provincia o nei paesi, con una scrittura generalmente non ombelicale, non velleitaria, asciutta, precisa, documentata, al servizio della voce e della storia”.

Mentre su La Caduta, introducendo una bella intervista al direttore di CTRL, Lorenzo Mondaini scriveva che “in questo panorama pieno di incertezze per il giornalismo e per il sistema d’informazione come lo conosciamo, sono pochi i coraggiosi che provano a sfidare la corrente, a cercare la lentezza piuttosto della velocità, la lunghezza piuttosto della sinteticità”.

È anche una questione di sguardo. Dopo gli attentati a Charlie Hebdo, per esempio, per discutere di integrazione, delle esplosioni di risentimento rabbioso, di marginalità, CTRL ha proposto un lungo reportage su Zingonia, ‘la Scampia del nord”, com’è stata definita, in provincia di Bergamo. Probabilmente la cosa più simile in Italia alle banlieue francesi, dove il 90% degli abitanti sono stranieri, restituendone, però, l’immagine di ‘un laboratorio sociale complesso e portentoso’; parlando così di integrazione in modo molto più preciso di molti op-ed .

Un lavoro di questo tipo non solo comporta delle spese più elevate – di molto –, ma è anche meno conveniente per gli inserzionisti.  A La Caduta, Fennino dichiarava che l’espansione su scala nazionale, pur avendo ampliato il bacino dei lettori, e pur avendo colmato un vuoto quantomeno prospettico nel racconto della realtà in Italia, aveva reso troppo sparpagliati gli inserzionisti, a cui, semplicemente, non conveniva più. Chiaramente, se mancano le entrate, nonostante gli sforzi, rischia di crollare tutto; e infatti CTRL è stata veramente a un passo dal chiudere.

Il suo caso suscita domande così poco alla moda, forse ovvie, quanto sempre più ineludibili: come possiamo gestire quello che ha un prezzo, ma non fa gli interessi di nessuno in particolare perché fa quelli di tutti?, possono esistere delle realtà sociali che esprimono un valore diverso da quello strumentale o finanziario?, quante idee vengono abortite prima di nascere perché non sono – sic – scalabili nel breve-medio termine?

La risposta più semplice, anche se sempre meno scontata, è che si dovrebbe contribuire una quota a testa (decidere il come è una scelta politica). Per CTRL è andata proprio così, ma appunto è un’eccezione giustificata dalla sua unicità: l’anno scorso, per continuare a esistere ha avviato un crowdfunding (‘stiamo scomparendo’, era il claim della campagna).

La risposta è stata sorprendente e superiore alle aspettative: hanno raccolto 15mila euro e da lì è iniziata una nuova ristrutturazione del giornale; la redazione è diventata editrice e ne è nato anche uno strano e interessante libro di reportage che, a partire dall’idea della possibile scomparsa della rivista, indagava e raccontava le comunità linguistiche in via di scomparsa (il titolo: Stiamo Scomparendo – Viaggio nell’Italia in minoranza; le lingue: l’Arbëreshë, l’Occitano, il Tabarchino, il Grico, il Walser).

Da poco è uscito un secondo volume (Gli Ultrauomini – Terrestri d’Italia in contatto con altre dimensioni), che forse esprime ancora di più l’atmosfera di cos’è CTRL, la sua appunto, “diversità e vocazione”; la sua utilità, il suo valore.

In molti negli ultimi anni si sono resi conto che uno dei punti privilegiati, e più conflittuali, per osservare la realtà è il rapporto tra centro e periferia. Sembra allagarsi sempre di più una frattura, non solo geografica, ma economica, e più generalmente culturale, tra questi due poli. Saskia Sassen qualche anno fa sosteneva che le città globali sono molto più simili tra di loro, che tra i territori che le circondano. Questa diversità si manifesta nei termini di una distinzione profonda, di cui la geografia è più effetto che una causa, con una serie di epifenomeni infiniti: dal prezzo degli affitti, alle scelte di consumo, a quelle elettorali (in certi quartieri di Milano sembra di stare a Cavriago: in piazza Lenin, ma 5 km dopo pare di stare in Germania, ma nel ’33).

CTRL

Del centro sarebbero espressione i diritti civili, gli apericena, le sonde che vanno su Marte, le startup, ‘gli eventi’, lo Xanax; etc. Il rimosso del centro, e cioè il dominio della periferia è quello del ‘degrado’, del populismo, della xenofobia, l’ignoranza (in ambo i sensi), la riesplosione silenziosa dell’eroina. Due forme di vita si scontrano.

C’è qualcosa di vero, cioè una spaccatura per mille ragioni esiste, e si allarga, ma ovviamente è una visione stereotipata, pigra e problematica: è il caso di quella semplificazione che si esprime nel discorso sul conflitto tra le élite e la gente.

Benjamin Bratton argomentava che la geometria della geografia politica oggi è più complessa perché non ha un fuori, uno spazio libero contro cui delimitarsi: è più plurale, più contraddittoria, più composita e a più scale: le spinte più divergenti, sono anche convergenti: “Nel 2008 abbiamo visto fondamentalisti religiosi attaccare Mumbai con le mappe di Google Earth, cellulari satellitari, SIM rubate. Se pure qualcuno lanciasse il nuovo cosmopolitismo secolare a venire, altri resterebbero sul terreno di un feudalesimo basato sul cloud: Visigoti con gli iPad, microstati teologici e barbari con fiorenti industrie biotecnologiche e nanotecnologiche”.

Ma come si fa a raccontare un mondo in cui quanto appartiene a domini dell’immaginario, a narrazioni opposte, convive, e in qualche modo si concilia? Nel suo piccolo CTRL ha in qualche modo esplorato in continuazione questa dialettica, dimostrando come la realtà sia sempre più straniante, complessa e stupefacente del previsto.  Lì hanno sempre pensato – citiamo di nuovo dall’intervista di Mondaini a Fennino – che è vero che “queste due dimensioni [il centro e la periferia] rischiano di polarizzarsi”, ma anche che “una narrazione provinciale è una narrazione dell’Italia, che è a sua volta una provincia d’Europa. Quindi, ecco, credo che ci sia bisogno di mettere più al centro la provincia ma allo stesso tempo far vedere gli aspetti più periferici del centro”.

E, appunto, da una visione simile risulta uno sguardo che si esprime in una diversità non comune. Leggendo Gli Ultrauomini vediamo che la realtà più quotidiana, più prossima a noi, è fatta anche appunto dalle storie vere di ultrauomini: come il ventiduenne che nella bassa modenese si è fatto impiantare un microchip per non morire mai (ne ha scritto Martino Pinna); o dell’agenzia di pompe funebri a Mirandola (Modena) che manda i cadaveri in Russia, a meno 196 gradi, perché un giorno li si possa riportare in vita (ne ha scritto Valerio Millefoglie, – chissà come mai, poi, Modena è così transumanista).

Si legge di Ortensia, impiegata comunale, che in provincia di Catanzaro a quarant’anni diventa Tenebra, una delle prime donne wrestler in Italia (ne ha scritto Maria Chiulli). Di Bert, alieno di paese, che in quanto alieno non ha mai lavorato in vita sua e vive vendendo oroscopi (lo racconta Donato Novellini). Giulia Callino ha parlato delle suore che vivono in clausura nella città più interconessa in Italia, Milano, e Alessandro Monaci di chi passa la vita sottoterra. Di una ragazza, Irene, di 29 anni che trucca i morti: è una tanato-esteta (e ha anche un canale su Youtube – ne ha scritto Sofia Natella).

Sono pochi i luoghi in cui per una volta il mondo appare più strano, e soprattutto più strano nel modo in cui siamo abituati a riconoscere lo strano entro i soliti schematismi, e quindi dove si ha la sensazione che in qualche modo sia più vero. Quei luoghi stanno in piedi in mezzo a mille difficoltà, peccato che non ne abbiamo mai avuto tanto bisogno.

 

(nota: le immagini sono tratte dalla pagina facebook di CTRL magazine)

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