Riscoprire un classico, o un’opera letta in passato, ci permette di andare oltre i pregiudizi, le idee fossilizzate, i luoghi comuni in mezzo ai quali ci siamo accomodati per molto tempo. Di solito può succedere con autori sconosciuti, oppure con autori su cui aleggia un’aura controversa. Pensiamo, per fare un esempio non a caso, a Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1 marzo 1938). Su ilLibraio.it rileggiamo una delle sue drammaturgie più importanti e, al tempo stesso, meno conosciute: “La figlia di Iorio”, un testo che riesce a mettere in scena tematiche attuali, affrontando la critica al patriarcato attraverso la figura della donna strega…

Rileggere un classico, o un’opera letta nel passato, è un po’ come incontrare un vecchio amico dopo tanto tempo. Ci si ricorda dei motivi che ci avevano spinto ad affezionarci così tanto, mentre si scoprono nuovi aspetti che prima, forse per immaturità, forse per sbadataggine, o forse semplicemente per il periodo che stavamo attraversando, ci eravamo lasciati scappare. Proprio come accade nella vita vera, le occasioni per rileggere un romanzo o un autore spesso sono ricorrenze e anniversari, momenti in cui siamo stuzzicati dalla curiosità di lanciare uno sguardo indietro, per vedere come va. A questo punto si possono aprire diverse strade: la conferma (nel caso in cui ci rendiamo conto che quel libro continua a piacerci nonostante siano trascorsi tanti anni), la delusione (quando invece la passione si sgonfia, lasciando spazio a una scialba indifferenza), oppure la riscoperta. Quest’ultimo è forse uno dei casi più piacevoli e sorprendenti, perché ci permette di andare oltre i pregiudizi, le idee fossilizzate, i luoghi comuni in mezzo ai quali ci siamo accomodati per molto tempo. Di solito può succedere con autori sconosciuti, oppure con autori su cui aleggia un’aura controversa e discussa. Uno tra tanti, Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1 marzo 1938).

Che il Vate che puntava a vivere la propria vita come un’opera d’arte non godesse di un’ottima reputazione, non è una novità. Un po’ per questioni storiche e politiche (“quel fascista di D’Annunzio”), un po’ per questioni letterarie (“quel copione di D’Annunzio”), un po’ per questioni private (“quel donnaiolo di D’Annunzio”). E a ben vedere, ogni ragione, a suo modo, affonda le radici su terreni più o meno attendibili. Certo non era un mistero che lo scrittore simpatizzasse per il movimento del Duce (pur con qualche riserva, come ricorda l’Intellettuale dissidente), o che si lasciasse ispirare dai maestri del passato per scrivere le sue opere (ma del resto, quale autore è immune dall’emulazione dei grandi?), o ancora, che fosse un amante appassionato e uno sciupafemmine doc (discorso più delicato, infarcito dalle voci – inverosimili, maliziose e smentite – che bisbigliano che si sia fatto asportare due costole per autopraticarsi del sesso orale).

Però, c’è da dire che la produzione di D’Annunzio è stata così vasta e ampia, e ha toccato tanti generi, come la poesia, il teatro e la prosa, che forse, potrebbe essere un’operazione interessante esplorarne alcuni lati più nascosti. Per esempio, andando a rileggere una delle sue drammaturgie più importanti e, al tempo stesso, meno conosciute: La figlia di Iorio.

la figlia di iorio garzanti d'annunzio

Dramma pastorale o, meglio, tragedia rustica di argomento abruzzese, come la definì lo stesso Vate, l’opera venne pubblicata nel 1903, mentre la prima rappresentazione, affidata alla regia di Virginio Talli, ebbe luogo a Milano, al Teatro Lirico, il 2 marzo dell’anno successivo. Prenderla oggi tra le mani significa confrontarsi con un’opera che sembra poterci raccontare più di quanto immaginiamo. Colpisce come un testo così antico riesca a mettere in scena tematiche attuali, servendosi dello stesso immaginario di cui oggi si avalvalgono molte narrazioni. Quante sono le Morgana che conosciamo? Dai libri, ai film, alle serie tv (solo per citare gli ultimi casi, Luna Nera e The Witch), la figura della strega, nell’era del neofemminismo, ha assunto un ruolo di assoluta importanza, perché rappresenta l’alterità, l’elemento che stona, che non si sottomette, che può combattere il sistema patriarcale. Ecco, quella figura ha un precedente illustre nel personaggio creato proprio dalla penna di D’Annunzio.

Protagonista della vicenda è Mila di Cadra, la figlia di Iorio, un uomo considerato uno stregone pericoloso dalla comunità del paesino rurale in cui la storia è ambientata. Già il titolo ci fa capire molto della posizione che ricopre la donna all’interno di questo racconto, la cui identità è definita in relazione alla subordinazione al padre: Mila, in quanto figlia di mago, è essa stessa una fattucchiera, una creatura malvagia e demoniaca. È una strega, una donna pericolosa, minacciosa e maledetta. È catalizzatrice degli impulsi degli uomini che, per dominare la sua alterità e sottometterla, conoscono un solo strumento: lo stupro.

Così la troviamo all’inizio del dramma, mentre fugge da un gruppo di mietitori ubriachi, “pazzi di sole e di vino, di mala brama e di vituperio”, intenzionati a violentarla in branco. La donna, totalmente indifesa, cerca protezione nella casa di un pastore, Lazaro di Roio del Sangro. Qui c’è grande fermento: siamo nel bel mezzo dei preparativi di un matrimonio, quello tra il giovane Aligi, figlio di Lazaro, e la bella Vienda. Tutti si spendono in canti, litanie e riti di buon auspicio per la novella coppia, soprattutto le tre sorelle dello sposo – Ornella, Splendore e Favetta – che sono occupatissime a rendere ogni cosa perfetta.

L’arrivo improvviso di Mila, quindi, getta tutti un po’ nel panico. La verità è che nessuno la vorrebbe lì, tra i piedi: come abbiamo detto è una strega, e la sua presenza, in un giorno importante come quello che si apprestano a vivere, non può portare niente di buono. Per questo la madre di Aligi, Candia della Leonessa, decide di intervenire per allontanare la ragazza. Dapprima si esprime con parole composte e pacate – da brava cristiana quale crede di essere – poi, quando la giovane continua a implorare aiuto – fuori la porta, i mietitori invasati urlano, battono pugni, reclamano la sua carne – la scaccia con violenza: “Vattene figlia di mago. Nella mia casa io non ti voglio. Vattene ai cani”. E poi si rivolge al figlio, incoraggiandolo a buttare la megera fuori dalla loro dimora. È in questo momento che qualcosa scatta in Aligi. In verità è dall’inizio del dramma che vediamo il giovane confuso e agitato, inquieto, visibilmente angosciato da un sentimento che agli altri non è possibile comprendere: forse è semplicemente in ansia per il matrimonio, o forse c’è una parte di lui in grado di premonire quello che sta per accadere.

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Che Aligi sia particolarmente sensibile, infatti, lo capiamo poco dopo: il ragazzo, ossessionato dalle richieste delle donne della casa, afferra una mazza e si avventa su Mila per colpirla, ma subito si blocca e chiede scusa alla ragazza (per mostrare il suo pentimento si dichiara per fino pronto a stringere tra le mani un tizzone ardente). Intanto il gruppo di donne è inferocito: Aligi, rifiutando di punire la strega, è venuto meno ai valori di questa comunità ancestrale, in cui, è ben evidente, sono le donne a essere le portavoci più convinte. La rappresentazione non è banale perché mostra come, in una società patriarcale, spesso sono proprio le donne ad avallare le dinamiche maschiliste.

Inutile dirlo, il matrimonio tra il pastore e Vienda salta. Il secondo atto si apre con Aligi e Mila in una caverna sperduta tra i monti abruzzesi: si sono innamorati e desiderano sposarsi. La loro è un’unione casta, innocente, completamente opposta allo stigma che fin dall’inizio dell’opera ha accompagnato Mila (definita una “bagascia di fratte e di bosco, putta di fenile e di stabbio, svergognata che fece da bandiera a tutte le biche“). Tutto sembrerebbe procedere per il meglio, non fosse per l’arrivo di Ornella, la sorella buona di Aligi, l’unica ad aver provato a difendere Mila il giorno del tentato stupro, recatasi lì scongiurare la ragazza di far tornare il fratello a casa.

In pratica, da quando Aligi è andato via, niente è più come prima: la famiglia verte in condizioni disastrose e sono tutti sicuri che sarà il suo ritorno a ripristinare l’ordine perduto. Chiaramente si intuisce che Ornella non è altro che l’intermediario della madre, convinta che Mila abbia lanciato un maleficio su tutti loro e che abbia stregato il cuore del figlio. Ma non è nessun incantesimo ad aver distrutto l’equilibrio della famiglia, bensì una cultura violenta nei confronti della donna, che si rivela per l’ennesima volta quando Lazaro cerca di sedurre Mila e di possederla con la forza. Quando il figlio lo trova con le mani addosso alla donna che ama, lo aggredisce con tutte le sue forze e lo batte fino a togliergli la vita: “Mettiti in ginocchi e domanda perdono con la faccia a terra”.

La figlia di Iorio, Francesco Paolo Michetti

La figlia di Iorio, Francesco Paolo Michetti

L’uomo muore, sotto i colpi del giovane, che per il suo gesto è condannato a essere gettato in un fiume all’interno di un sacco. Per salvarlo, allora, Mila si autodenuncia, dichiarando di essere stata lei ad aver ingannato Aligi e ad averlo indotto, con la sua magia, a innamorarsi di lei e a uccidere il padre. Lui non le crede, cerca di opporsi, ma ormai è troppo tardi: il pregiudizio è stato confermato, alla comunità basta aver trovato un capro espiatorio a cui addossare tutta la colpa. La donna viene condotta alla catasta per essere bruciata tra le fiamme. Così, almeno apparentemente, il Male – la femmina ribelle, riottosa, irriducibile alle regole – è stato sconfitto. Tutto può tornare alla normalità.

È ovvio per lo spettatore – ma anche per i personaggi – che l’autodenuncia di Mila sia un sacrificio d’amore per proteggere Aligi, ma non è un caso che D’Annunzio lasci serpeggiare, sul finale, il dubbio che effettivamente la ragazza abbia esercitato il suo potere di strega per ottenere quello che voleva: la vendetta contro gli uomini che fin dall’inizio volevano violentarla. La critica all’abuso del potere maschile, quindi, non è poi così velata, e la storia e i personaggi con cui l’autore sceglie di veicolarla hanno una forza comunicativa esemplare, perché rifuggono le posizioni nette e gridate, tracciando un quadro ricco di chiaroscuri (esattamente come quello di Francesco Paolo Michetti, ispirato proprio all’opera del Vate): forse D’Annunzio era più femminista di quanto pensassimo.

Fotografia header: Getty Editorial febbraio 2020

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