“La convenzionalità della regia e della sceneggiatura guastano un po’ la provocatorietà degli assunti, ma i corpi e la tensione palpabile delle protagoniste sembrano creare momenti capaci di scardinare l’impianto tutto sommato tradizionale, che obbedisce alle aspettative di un cinema di qualità, ma non sonda mai territori di rottura o momenti di rivelazione…”. La recensione di “Disobedience”, il film di Sebastian Lelio tratto dal romanzo di Naomi Alderman

“Che cosa ti è accaduto?” “Tu mi sei accaduta”. Forse in questo scambio di battute, banale e potente insieme, s’inscrive il destino ineludibile e il cliché inevitabile, la retorica eppure la verità, nucleo di questo che potremmo chiamare un melò lesbo-kosher, in cui l’incontro travagliato e magnetico di due donne, e di due attrici bellissime e bravissime (le due Rachel, Weisz e McAdams) diventa il racconto del conflitto e del cortocircuito che ogni vera scelta che ci accade di affrontare contiene in nuce, fatta com’è di una lacerante miscela di perdita necessaria e ritorno impossibile, incontro con l’altro e abisso del nuovo.

Storia di lutto e letto, Eros dei corpi e libertà dello Spirito contro (e dentro) il Thanatos della Norma e della Tradizione, Disobedience narra del rifiorire straripante di una passione giovanile fra Esti, moglie ebrea sposata col migliore amico per andare incontro alle pressanti aspettative della comunità ortodossa londinese, e Romit, che ha scelto invece l’esilio newyorkese per ribellarsi alla legge del padre rabbino, la cui morte improvvisa la riconduce però alle origini jewish e british dalle quali aveva provato a fuggire, ma la riporta anche fra le braccia del suo desiderio, e dunque del suo dilemma.

Se il papà Rav muore proprio durante un sermone, posto didatticamente in esergo al film, in cui narra dell’uomo sospeso fra la purezza e la perfezione degli angeli e l’istinto naturale delle bestie, consegnando in lascito la questione sempre aperta del libero arbitrio, l’attrazione delle due donne, scandalosa minaccia per il modello sociale e valoriale di un’enclave religiosa tradizionalista, si configura come una licenza/disobbedienza doppiamente trasgressiva (in quanto desiderio femminile e insieme attrazione omoerotica), in un contesto sociale in cui le donne vivono una separatezza spettatoriale e hanno come destino prescritto matrimonio e procreazione. E la libertà delle donne, ameno quella di separarsi, sebbene prevista (in qu*esto un’eccezione all’interno delle religioni monoteiste, che non contemplano solitamente il divorzio), è però posta sotto condizione della concessione del marito. Si tratta dunque, per dirla alla francese, di una liberté octroyée. Ma anche ottenere intimamente e pubblicamente questa concessione è, nei fatti, una piccola rivoluzione, e la richiesta che Esti non può non fare al consorte di essere lasciata libera deve transitare dalla concessione/rinuncia sancita dal discorso in assemblea del giovane rabbino, e dall’abbraccio a tre con l’uomo di casa.

Certo, grazie alla carica di sensualità ed espressività delle due protagoniste, o forse nonostante questa forza che rende credibile ogni fremito e ogni sguardo (e paradossalmente smussa l’aspetto scandaloso con una complicità inevitabile dello spettatore), la pellicola soffre di un certo schematismo didascalico. E un grado di correttezza e prevedibilità disinnescano parecchi aspetti perturbanti di questa storia di parrucche e parrucconi, candelabri e labbra candide, ritorni di fiamma e messe al rogo, eredità continuamente messa in gioco e in bilico nella dialettica ineludibile fra tradizione e tradimento.

Così la convenzionalità della regia e della sceneggiatura guastano un po’ la provocatorietà degli assunti, ma i corpi e la tensione palpabile delle protagoniste sembrano creare momenti capaci di scardinare l’impianto tutto sommato tradizionale, che obbedisce alle aspettative di un cinema di qualità, ma non sonda mai territori di rottura o momenti di rivelazione.

In tal senso, su un tema per molti versi analogo, si riveda quel capolavoro (per critica sociale, compattezza estetica, eleganza e originalità dello stile, potenziale politico, filosofico e perfino metafisico) che è Viviane (2014), della coppia di registi israeliani Ronit e Shlomi Elkabetz. Si tratta di un film capace di raccontare il potere dirompente di vita e scelta di un personaggio femminile, senza far ricorso a facili escamotage pruriginosi eppure cogliendo il cuore della questione della libertà. La sua protagonista, una donna fortissima e ferma, è capace di mettere in crisi profondamente le sclerosi della società religiosa che la circonda, operando la strada solitaria, pervicace e insieme pacata di una decisione consapevole e irremovibile (quella di separarsi dal marito per disamore ma senza pretesti, o orizzonti trasgressivi, e senza voler rinunciare all’adesione alla suo orizzonte culturale). Il vestito rosso di Viviane e i suoi capelli sempre più sciolti, il suo corpo, che di udienza in udienza, r(i)esiste in una società ancora centrata su un dominio maschile cieco e inflessibile che veste la maschera imperturbabile della Giustizia, esprime una rivoluzione e uno scandalo molto più profondi delle disobbedienze tutto sommato innoque e patinate, anche se furbescamente declinate in chiave saffica, del film di Sebastián Lelio.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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