La confessione intima che Pedro Almodóvar ci regala con “Dolor y gloria” è una sorta di TAC dell’anima, che questo autoesame immaginario svolge con passione e controllo, dolcezza e pathos, un’operazione tipica del cinema di questo autore, da sempre abile a fare dell’ospedale un luogo paradossalmente ospitale, della malattia e della perdita occasioni espressive ed esistenziali di metamorfosi e rigenerazione. Qui l’autobiografia d’invenzione tocca vertici di onestà, equilibrio ed emozione fra i più alti del regista, che dismette anche la facile trasgressione per guardarsi in faccia senza infingimenti – La recensione

Macchie di colore indistinte, mescolate e liquide, pigmenti gettati sullo schermo e moltiplicati in caleidoscopici riverberi di quello che (forse) si può vedere chiudendo gli occhi (kubrickianamente con gli eyes wide shut, memori del precetto del Piccolo principe, apparente paradosso per un regista, che “l’essenziale è invisibile agli occhi”). È quasi un test di Rorschach variopinto, animato ed enigmatico, che ci proietta inizialmente in questo film, suggerendoci di ritrovare nelle immagini frammenti interiori (nostri, dell’attore e del regista, confusi).

Da questi titoli di testa, dentro la testa del creatore, si passa a un uomo che pare meditare sul fondo di una piscina. Non può non ricordare il cadavere narratore all’incipit di Viale del tramonto, eppure è vivo: gli occhi serrati sott’acqua, e una lunga cicatrice che ne segna la pelle, inaugurano e segnano questa pellicola, la sua prospettiva nascosta e profonda (in qualche modo terminale e aurorale insieme). Un’immagine che mette insieme regressione e concepimento, ferita e cura del sé (dolore e gloria?), immergendoci da subito in una dimensione amniotica e ipnotica, lenta e inesorabile.

E da qui i fiumi del ricordo prendono vita in forma di flashback o prefigurazioni/rielaborazioni filmiche, gli spazi assolati e vividi dell’infanzia vengono alla luce con forza.

Nel dormiveglia delle letture (in un film pieno di libri e di scritture, e di lezioni di scrittura), attraverso i sensi e il loro perdersi, le cadute nel sonno e i collassi causati dalle sostanze, le distrazioni e le rievocazioni propiziate dagli incontri, le immagini primarie che hanno formato uno sguardo si riattivano: l’acqua e i liquidi (il fiume dove la madre lava i panni stesi come tele cinematografiche, di quel bianco della grotta platonica che fu casa di un bambino per cui  “il cinema avrà sempre l’odore della pipì”), le note di un piano o di una canzone (il collegio dove l’eccellenza della voce canora diventa il lasciapassare del percorso di formazione privilegiato e insieme lacunoso di una mala educación), l’attrazione lenitiva e tardiva per la droga (la stagnola dell’eroina come quella del cioccolato delle merende di bambino), le scoperte (letteralmente febbrili) del primo desiderio (come esperienza erotica ed estetica insieme, che disegna un destino).

Nel mezzo del cammin della sua vita Salvador Mallo si trova in una dimora oscura (che è la vera casa del regista, di cui condivide molti tratti, oltre alla professione), circondato (novello Citizen Kane) dai quadri collezionati e amati, una folgorante carriera alle spalle, e tuttavia solo e svuotato nella sua tana museo: il desiderio appare spento, la creatività sopita o fortemente compromessa, la dipendenza sostituisce la fame e appare l’unica farmacopea un po’ efficace per una vita in cui gli acciacchi fisici e morali arrivano al limite del grottesco.

Una passione (mancante) che s’inscrive con precisione mimetica sul corpo di un Antonio Banderas che ridimensiona e ribalta la sua figura divistica per dare moto (rallentato) e specchio (deformato) a questo Almodóvar maturo e misurato, triste y final. E l’attore, premiato meritatamente a Cannes per l’interpretazione (per un film che forse meritava anche altri riconoscimenti), presta con generosità, umiltà e talento il suo volto complice al film della maturità, l’Otto e mezzo vien da dire facilmente, del suo mentore regista madrileno (quasi una restituzione di La legge del desiderio, che contribuì a scoprirlo, sancendo amicizia e connubio artistico di autore e attore).

Alla domanda come stai, il personaggio regista in crisi risponde lapidario e disilluso: vecchio. Assalito dalla decadenza fisica, ma soprattutto da una depressione che non gli permette di creare, Salvador è assediato dal passato, nella penombra che lo abita, fra l’urgenza di un bilancio e il bisogno di conciliarsi con quello che è stato, lo spettro della morte (della madre, del desiderio, di sé) e le possibilità inattese (eppure inscritte nel nome) di una rinascita. Perché non si tratta di un film testamento: piuttosto, la voglia di chiudere con i fantasmi che c’inseguono, apre a un nuovo processo creativo che può passare solo dal dare loro benvenuto e parola (come Amleto insegna).

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Ecco dunque la necessità di riconciliarsi con un passato che non è morto, non è neppure passato, e dare voce a tutto quello che si è perduto, e dunque si dà come mancanza: la prima creazione, il primo desiderio, le ferite del tradimento di attori e amanti, la lacerazione dell’abbandono inflitto e subito, i sensi di colpa e di insufficienza verso un madre accudente e sacrificale, con tutta l’inadeguatezza e l’incapacità di corrispondere al modello e risarcirlo dei propri limiti. L’unica strada per prendersi cura di sé sembra passare dalla necessità rischiosa di raccontarsi, mettersi in scena.

La confessione intima che, pur con ironia e pudore, trasfigurazione e gioco, Pedro Almodóvar ci regala con Dolor y gloria è una sorta di TAC dell’anima, che questo autoesame immaginario svolge con passione e controllo, dolcezza e pathos, un’operazione tipica del cinema di questo autore, da sempre abile a fare dell’ospedale un luogo paradossalmente ospitale, della malattia e della perdita occasioni espressive ed esistenziali di metamorfosi e rigenerazione. Qui l’autobiografia d’invenzione tocca vertici di onestà, equilibrio ed emozione fra i più alti del regista, che dismette anche la facile trasgressione per guardarsi in faccia senza infingimenti.

La voce del protagonista, quella voce che gli consente da bimbo di diventare solista nel coro (di distinguersi), e che trova espressione nel film d’esordio immaginato Sabor (la cui locandina è una bocca, rossa e sensuale, che gusta una fragola), non casualmente è l’elemento che simbolicamente entra in crisi. L’occlusione della gola, patologia rara che impedisce al protagonista di esprimersi e di assaporare (e ne minaccia, soffocandolo, la sopravvivenza stessa), sembra il sintomo esteriore di una malattia dell’anima.

Alla domanda di genere che il chirurgo fa al paziente prima di operare il paziente sul suo nuovo progetto del regista (“dramma o commedia?”), Almodóvar ha sempre (non) risposto con un’apertura coraggiosa (“non lo posso sapere”), ché la vita, finché è viva, come il suo cinema, ha esiti alterni e imprevedibili, e mescola sempre i generi, e i colori.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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