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Dostoevskij: la vita e i demoni di uno scrittore

Lo scrittore Fëdor Michajlovič Dostoevskij

Fëdor Michajlovič Dostoevskij avrebbe scritto lo stesso i suoi più grandi capolavori, come Delitto e castigo, I demoni, o I fratelli Karamazov se non avesse dovuto affrontare un esilio decennale in Siberia, al bagno penale prima e come soldato semplice nella remota Semipalatinsk poi? Molto probabilmente ne avrebbe scritti altri, sicuramente in un’altra forma; ma l’interesse per un’umanità infelice e tormentata, per la psicologia che soggiace dietro ogni relazione, è presente fin dagli esordi, da prima, dunque, di quel fatidico 23 aprile 1849 in cui un arresto ingiusto gli avrebbe completamente cambiato la vita.

Da Povera gente al Circolo di Petrasevskij: uno scrittore compromesso

 Quando Dostoevskij pubblica Povera gente, nel 1846, ha venticinque anni e, di stanza a San Pietroburgo, ha appena abbandonato la carriera militare per dedicarsi alle lettere. L’esordio ha un successo clamoroso, Dostoevskij viene elogiato apertamente dal critico Belinskij e dal poeta Nekrasov, due delle maggiori autorità letterarie del tempo: il giovane scrittore sembra partito per non fermarsi più. Dello stesso anno è il romanzo breve Il sosia, a cui seguono un altro romanzo, Netočka Nezvanova, del 1849, e un buon numero di racconti su riviste e giornali (tra cui il celeberrimo Le notti bianche, del 1848).

Dostoevskij non è neppure trentenne, ma già in queste prime opere si trovano accennati alcuni temi che torneranno nei grandi romanzi della maturità, come le conseguenze della miseria e del disagio psichico sull’animo umano. Dostoevskij, d’altronde, ha avuto già modo di confrontarsi con la sofferenza: suo padre è un uomo autoritario e dispotico, che tormenta il figlio con il suo terribile carattere e muore precocemente nella sua tenuta, ammazzato dai suoi stessi contadini. Alla notizia, e a causa dei sentimenti contrastanti che ha provato nei suoi confronti, Dostoevskij ha il primo di quegli attacchi epilettici che lo accompagneranno per sempre.

È in questi anni che Dostoevskij, in una San Pietroburgo piena di furori culturali e fermenti politici, si avvicina al circolo di Petrasevskij, un giurista socialista affascinato dalle teorie del filosofo utopista Charles Fourier. Il gruppo, che si trova a discutere di politica e socialismo ogni venerdì, viene arrestato nel 1849. Tra le accuse spicca quella di una stamperia clandestina a cui avrebbe collaborato anche Dostoevskij, reo, in aggiunta, di aver letto una famosa lettera scritta da Belinskij a Gogol, in cui compare una dura accusa all’autocrazia e la cui riproduzione è vietata dalla censura.

La condanna a morte e l’esilio in Siberia

All’arresto seguirà il più grande trauma della vita di Dostoevskij, lo scherzo spietato di Nicola I: una finta condanna a morte. Dopo mesi di processo Dostoevskij e gli altri membri del circolo sono condannati alla fucilazione, la pena è evidentemente spropositata, ma quello dello zar è un gioco di forza: i condannati vengono portati davanti al plotone d’esecuzione, il primo gruppo bendato. Nel secondo gruppo, a guardare e aspettare il proprio turno, c’è Dostoevskij, ma non morirà nessuno. Come in brutto film in quel momento entra un messaggero e la pena di morte è commutata nell’esilio in Siberia.

Dostoevskij viene imprigionato nella fortezza di Omsk, dove resta per quattro anni, vive a stretto contatto con i più spietati criminali di Russia, e viene a conoscenza delle peggiori storie di violenza, disperazione e morte che un essere umano possa sopportare. Quando lo inviano, per buona condotta, a Semipalatinsk in arruolamento coatto, Dostoevskij è un’altra persona: torvo, emaciato, reticente; uno dei più brillanti giovani intellettuali di San Pietroburgo non riesce quasi più a parlare.
Lo salverà, letteralmente, l’amicizia con un giovane procuratore appena ventenne, il barone Alexander von Wrangel. Von Wrangel, come racconta Jan Brokken ne Il Giardino dei cosacchi (Iperborea), è un ragazzo sensibile e maturo che si fa carico della rinascita di uno scrittore: non solo, grazie a lui, Dostoevskij ritrova la forza vitale che sembrava perduta, ma ritrova anche la voglia di scrivere.

Dostoevskij, tuttavia, ha il divieto di pubblicare e le opere che nasceranno in Siberia vedranno la luce solo molto più tardi: Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti è un breve romanzo umoristico, che rivela il bisogno di lievità dello scrittore e dopo il quale Dostoevskij si sente pronto per cominciare quel duro racconto degli anni a Omsk che prenderà forma nelle Memorie dalla casa dei morti.
Un’altra conseguenza della prigionia è l’interesse di Dostoevskij per i delitti, i processi e il sistema giudiziario. Lo scrittore, infatti, comincia a farsi raccontare minuziosamente da von Wrangel tutti i casi che il procuratore si trova a sbrogliare: le riflessioni che gli deriveranno da questi racconti confluiranno più tardi in uno dei suoi capolavori, Delitto e castigo, del 1866.

I grandi romanzi e i grandi amori di Dostoevskij

Quando, grazie alle intercessioni di von Wrangel, Dostoevskij riesce a tornare a casa (prima a Tver’, dunque, finalmente, a San Pietroburgo), la sua vita di scrittore può ricominciare. Le insidie sono dietro l’angolo, ma il clima politico più sereno che si respira sotto lo zar Alessandro II permette a Dostoevskij di fondare un paio di riviste a nome del fratello Michail e, soprattutto, di tornare a pubblicare.
Sono questi gli anni dei suoi romanzi più famosi, complessi affreschi in cui Dostoevskij riporta la sua esperienza personale e le sofferte riflessioni sull’animo umano maturate durante l’esilio. Tra gli altri, oltre a Delitto e castigo, vengono dati alle stampe nel 1869 L’idiota, con un protagonista che soffre di epilessia come il suo autore, e nel 1871 I demoni, con al centro la vicenda politica di una cellula anarchica.

Ma il successo letterario, come molti scrittori sanno, non sempre porta alla ricchezza. Ai limiti della più completa indigenza e soverchiato dai debiti, Dostoevskij viaggia in Europa per scappare dai suoi creditori, rompe amicizie (tra cui quella con von Wrangel), si dà al gioco. Unica a restare al suo fianco è Anna, sua seconda moglie e suo secondo grande amore.

Il primo amore risale alla Siberia: si chiama Marija, è sposata con un insegnante tubercolotico e alcolista e scrive poesie. Il legame tra Marija e Dostoevskij comincia quando il marito di lei è ancora vivo, continua dopo la sua morte e viene turbato dall’arrivo di un altro pretendente, anch’egli insegnante, spiantato ma giovane e bello (gli echi di questo triangolo amoroso si ritrovano in un altro romanzo: Umiliati e offesi).

Marija è capricciosa, malata, instabile, e nonostante ceda all’impetuoso corteggiamento di Dostoevskij si rivela la donna sbagliata. La prima notte di nozze Dostoevskij ha un attacco epilettico: Marija inorridisce, non è in grado di stare accanto al marito durante gli episodi della malattia ma non si separano, resteranno legati fino alla morte di lei. A sollevare Dostoevskij dal lutto e dalle preoccupazioni è Anna, stenografa che lo aiuta a portare a termine Il giocatore, romanzo semi-autobiografico scritto in fretta e furia per saldare debiti contratti proprio giocando.

Certo non stupisce: Dostoevskij ci ha abituati con la sua opera a vedere intrecciarsi di continuo vita e letteratura, attingere l’una dall’altra, non è sempre chiaro in che ordine. Forse non è un caso, allora, che I fratelli Karamazov, l’ultimo romanzo, il più consistente e filosofico, torni alla radice delle cose: dopo il bagno penale, dopo l’amore, di nuovo riecheggia il primo grande turbamento di Dostoevskij, la morte del padre.

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