Come Rocky Balboa, anche il protagonista del romanzo autobiografico del regista tv Duccio Forzano deve schivare colpi che potrebbero metterlo al tappeto… – Su ilLibraio.it un capitolo

Duccio Forzano, genovese, classe ’60, è uno dei registi televisivi italiani più noti. Tra le altre cose, dal 2005 al 2016 si è occupato di Che tempo che fa di Fabio Fazio, su Rai3, e per ben 4 volte è stato il regista di Sanremo. Forzano è ora al debutto in libreria con Come Rocky Balboa (Longanesi).

duccio forzano

Da bambino, Duccio adora i personaggi di Walt Disney, se li studia, li disegna e al cinema parrocchiale è capace di starsene seduto per ore a guardare lo stesso cartone animato, sovrapponendo nuovi finali a quelli che gli scorrono davanti: ed ecco che Wile Coyote riesce ad acciuffare Bip Bip, e Gatto Silvestro banchetta finalmente con Titti. Ma immaginare nuovi finali diventa ben presto una necessità: quando, ancora dodicenne, legge il laconico bigliettino con cui sua mamma gli affida la cura dei tre fratelli minori prima di andarsene per sempre di casa, la sua vita diventa un lungo esperimento volto a darsi nuove possibilità.

Come Rocky Balboa, anche il protagonista di questo romanzo autobiografico deve schivare colpi che potrebbero metterlo al tappeto. E, come Rocky Balboa, punta alla vittoria. Intanto, però, deve superare il difficilissimo rapporto con il padre, alcolista chiuso nel suo dolore e incapace di occuparsi dei figli, e riuscire a sopravvivere in un contesto sociale di grande povertà e poca poesia, dove l’abuso di droghe tra i suoi coetanei cancella prospettive e immaginazione. Duccio tiene duro e tenta di trasformare il suo dolore in energia, prima nello sport attraverso la lotta greco romana e lo judo, poi con la musica rock e suonando la batteria, ma soprattutto fa di necessità virtù: la sollecitudine con cui, in giro per il Nord Italia, si dedica a mille lavori per lo più precari e saltuari – lavapiatti e carrozziere, operaio in fabbrica e verniciatore, venditore di acqua minerale, di case vacanza, di marmi e graniti, animatore, posatore di caminetti… – è seconda solo alla perseveranza con cui nutre i suoi sogni. Poco più che ventenne, deve rinunciare suo malgrado a una promettente carriera musicale, ma a trent’anni scopre la gioia di star dietro a una telecamera e sarà proprio girando un video che farà il più inatteso salto d’immaginazione. Quello che gli permetterà di spiccare il volo.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto

(…)

Ho deciso, vado via. Questa città non ha pià nulla, nessuno che mi trattenga. Eri tu, papà, il collante di tutti i pezzi disordinati della mia vita. Di colpo mi sento perduto e tutto ciò che mi è capitato in questi ventiquattro anni sembra  svanire in un istante. Dove è finita tutta la mia sicurezza? La mia spavalderia? Ci siamo ringhiati addosso per anni e nessuno dei due si è mai sognato di chiedere scusa. Mai un abbraccio, un sorriso, una carezza.
Mai. Ci siamo trattati da nemici senza capire che entrambi soffrivamo per amore, l’amore disatteso della stessa donna. Ne eravamo follemente innamorati, tu da marito, io da figlio.

Però non lo volevamo ammettere, era molto più facile insultarsi per qualunque banalità, io davo la colpa a te, e tu la davi a me. In fondo, però, avevamo lo stesso problema: eravamo soli, noi due, di lei invece scoprivamo che andava in vacanza e che si divertiva. Anche io mi sono divertito a tornare stanco dal lavoro, tutti i giorni da quando avevo tredici anni. Stanco, sporco di vernice e puzzolente di officina, senza avere neanche la forza di lavarmi e di prepararmi la cena.

Davanti a questo bicchiere di vino, il tuo, quello che non doveva mancarti per nessuna ragione al mondo, sono solo. Il bottiglione che andavo a comprarti dal vinaio sotto casa adesso è mezzo vuoto, ora davvero non riesco a vederlo mezzo pieno. Seduto in questa cucina che ha la mia età, parlo con me stesso, ma è con te che vorrei parlare e invece non lo potrò fare mai più. Piango, non credevo di potermi sentire ancora più abbandonato di così. Mi dicevi sempre di stringere i denti e rialzarmi tutte le volte che fossi caduto, ma di energie non ne ho più. Sorseggio ancora un po’ di vino dal tuo bicchiere, una smorfia di disgusto si disegna sul mio viso già stravolto da lacrime incontrollabili, ma voglio berlo questo maledetto vino, voglio capire cosa ti dava che io non riuscivo a darti. Forse ti aiutava ad andare avanti, ma ai miei occhi ti trasformava in una brutta persona. Al contrario di mamma, che usava le botte per farsi ubbidire, tu non mi hai mai picchiato, ma più alcol ingerivi più rancore eri capace di vomitare. E il vino si prendeva anche quella dolcezza che gestivi rozzamente quando con le tue grosse mani mi regalavi una carezza.

Adesso vorrei sapere se sei mai stato orgoglioso di me, anche una sola volta, se c’è stato qualcosa che ti ha reso felice per merito mio. Non me lo hai mai detto e non sai quanto avrei avuto bisogno di sapere che hai apprezzato i miei sforzi per sopravvivere nella vita che ci è capitata. Qualcuno mi ha detto che andavi in giro con il giornale dove si raccontava che io e la mia band avevamo vinto Il Talentiere e c’era la nostra foto con Rita Pavone e Teddy Reno. La facevi vedere a tutti, dicendo che quello con i capelli un po’ troppo lunghi era tuo figlio, ma con me mai una parola.

D’istinto apro il cassetto delle tue cianfrusaglie, dentro ci sono accendini consumati, il cacciavite con il cercafase, la matita con la punta grossa… C’è anche una cartellina di cuoio consumato dal tempo, è chiusa con una cordicella avvolta intorno a un bottoncino. Non l’avevo mai vista, riempio ancora il tuo bicchiere e lentamente la apro. Dentro ci sono alcuni fogli e qualche foto.

La prima è incredibile, pensavo fosse andata perduta. Ci avevi portato al luna park, la mamma era rimasta a casa con uno dei suoi provvidenziali mal di testa. Dopo qualche giro sulle giostre, ti sei diretto al banco del tiro a segno. Hai fatto centro, siamo stati illuminati da un flash e dopo pochi minuti il giostraio ci ha consegnato una polaroid che ci ritraeva nel momento esatto dell’impatto tra il proiettile e il bersaglio.

Non riesco a staccare lo sguardo da questa vecchia immagine in bianco e nero. Mi sembra di sentire la voce della gente che grida divertita nella giostra lì a fianco, i capricci di altri bambini che vogliono lo zucchero filato, il colpo secco dell’aria compressa che spinge fuori dalla canna il piccolo proiettile di piombo, la musica dance. Doveva essere il 1969, sì, l’inverno del 1969, si vede dagli abiti che indossiamo e dalle guance « rosse » di Virginia. Siamo tutti concentrati a guardare il bersaglio, tu sei in posizione, imbracci il fucile, l’occhio destro chiuso, una smorfia leggera sulla bocca. Alla tua destra, da dietro il bancone, spuntano gli occhi di Adriano, ha un buffo cappellino di lana con un pon pon che sembra più grande della sua testa, e a sinistra c’è Mario, ma il suo volto un po’ scompare dietro il fumo della tua sigaretta appoggiata su un portacenere di alluminio proprio sotto di lui.

Lo scatto immortala non solo il momento in cui hai fatto centro, ma anche il perfetto impallo del fumo sul suo volto.

E poi ci sono io, con la bocca aperta, come se avessi capito che quel tiro avrebbe fatto centro. Non ho l’espressione sorpresa, no, è felicità mista a orgoglio. Papà, hai fatto centro e io l’ho capito una frazione di secondo prima. Tengo la foto tra le dita e la accarezzo dolcemente sperando che mi restituisca al tatto la pelle morbida delle tue guance fresche di rasatura.

Ci sono solo altre due foto, una ritrae te e mamma il giorno del vostro matrimonio. Sembra quasi che tu sappia già tutto, perché il tuo sguardo è coperto da quel velo di malinconia che conosco bene. L’altra foto invece mi piace un sacco. Sei in piedi davanti all’obiettivo, su un braccio tieni Mario, sull’altro tieni me, avrà sì e no quattro anni, e tra le labbra hai l’immancabile Nazionale senza filtro.

E questo? La sorpresa mi toglie il respiro. Ho tra le mani, invecchiato e ingiallito, il mio disegno di Peter Pan in volo davanti al Big Ben, il disegno che la riprova della mia caparbietà e testardaggine. E tu lo hai conservato per tutto questo tempo. Non ho capito nulla, papà, nulla. Adesso posso solo gridare, sperando che davvero esista un posto dove tu mi possa sentire.

È sicuro, vado via, devo rincorrere il mio sogno. Ora è la musica e poi si vedrà. Indosserò la mia nuova armatura, nata dalle ceneri della tua vita finita così presto, un’armatura che mi renderà immune ai colpi che arriveranno da ogni direzione. Bevo un altro sorso di vino, mi alzo dalla sedia barcollando leggermente, poi alzo il bicchiere al cielo e brindo a te un’ultima volta, infine mi accascio sulla sedia sbattendo il bicchiere sul tavolo di formica rossa.
Da oggi le cose devono cambiare, non voglio più soffrire così, mai più, per nessun essere umano. Le due persone più importanti, quelle che mi hanno messo al mondo, mi hanno tradito, forse inconsapevolmente, ma l’hanno fatto. E allora devo difendermi, il dolore non illumina la strada da percorrere, ma io ce la voglio fare anche senza di voi.

Appoggio la testa sul tavolo, allungo le braccia e sprofondo nel mio buio.

(continua in libreria…)

Abbiamo parlato di...