“Edoardo Sanguineti è l’ultimo intellettuale del Novecento”. Parola di Romano Luperini, che spiega come, nonostante la sua costante parzialità, la vocazione di del poeta (Genova, 9 dicembre 1930 – Genova, 18 maggio 2010) è ancora quella a essere un intellettuale “universale”. L’approfondimento sull’opera di un autore che identifica la verità, e non la bellezza, come scopo dell’arte

La lettera in versi è uno dei modi tipici della poesia di Edoardo Sanguineti – cartoline, in realtà, più che vere e proprie lettere: ma si sa, le cartoline si mandano a familiari e amici, per indirizzare il proprio messaggio a un pubblico non individualizzato, ma genericamente individuato e socialmente connotato, seppur affettuosamente chiamato, serve una lettera, appunto. Reca la data 1996 e viene pubblicata l’anno successivo in Corollario: quattro anni dopo, dunque, la famosa fine della storia salutata da Fukuyama, la fine delle ideologie è un concetto ormai maturato e assimilato dai più. Eppure Sanguineti non ci sta, ancora negli anni Novanta è invischiato nella difesa e nella decostruzione dell’ideologia, per un impegno attivo nella realtà. E allora questa poesia sta a testimoniare della presa d’atto della perdita di una specifica ideologia (“non è la flessione dei voti, quella / che mi preoccupa, ma lo sfascio di un’ideologia”, si legge in un testo della fine degli anni Settanta), quella marxista, che va però recuperata (“c’è da risollevarle […] certe antiche bandiere”) per risvegliare il sogno del comunismo, quel “sogno di una cosa” spesso alluso nelle poesie di Sanguineti e ripreso da una famosa lettera di Marx ad Arnold Ruge.

Il problema, allora, non è la fine delle ideologie, ma la perdita di una coscienza di classe: è una classe soltanto che ha perso la sua regola ideologica, il proletariato, mentre la coscienza di classe è ancora viva nella borghesia; la lotta di classe è fatta – e vinta – dall’alto verso il basso. Basta la tautologia a esprimerlo: il borghese è il borghese, il capitalismo è il capitalismo. Serve rinnovare una lotta che presiede da sempre all’attività poetica e intellettuale di Sanguineti, come ricorda la presenza del fango, motivo che fin dalla sua prima opera, Laborintus (1956), indicava appunto la realtà contemporanea da modificare, tramite l’azione sul mondo e il lavoro sul linguaggio.

Una vocazione alla prassi, dunque, attraverso la letteratura, o meglio, attraverso il linguaggio perché non esiste ideologia, visione del mondo, che non passi attraverso le parole (non a caso il suo primo libro di critica militante si intitola proprio Ideologia e linguaggio). Vocazione che resiste anche quando il ruolo e il riconoscimento dell’intellettuale si sfalda progressivamente: “Sanguineti è l’ultimo intellettuale del Novecento”, questo il giudizio perentorio di Romano Luperini, che spiega come, nonostante la sua costante parzialità, la vocazione di Sanguineti è ancora quella a essere un intellettuale “universale”, la cui attività – vale a dire la costante vocazione al sabotaggio e alla contestazione – può essere compresa solo all’interno di una battaglia ideologica volta a sostenere la verità del materialismo storico. Non a caso (e siamo ancora negli anni ’90), in un resoconto di una visita a casa di Gombrowicz, Sanguineti identifica proprio la verità, e non la bellezza, come scopo dell’arte: “e se le opere dei grandi hanno grandezza – scrive – e semplicemente se hanno un senso, è perché arrivano a testimoniare, se mai pervengono a testimoniare, del dolore irrimediabile degli uomini. Non è un problema di estetica, infine, ma di etica. Come suggerisce anche Schönberg, per altra via, all’arte non tocca la ricerca della bellezza, ma della verità”.

E ancora negli anni Novanta, dunque, in pieno “sfascio” ideologico, Sanguineti continua tenacemente a difendere la sua vocazione intellettuale, pur nella consapevolezza dell’esaurimento di quel ruolo. Non a caso nel 1986 usciva Novissimum Testamentum, un testamento parodico alla rovescia in cui si prende atto della vittoria indiscussa del modello (ideologico, percettivo, cognitivo, estetico, sociale oltre che economico, naturalmente) del neocapitalismo e contemporaneamente si scrive un requiem per la propria morte che vuole farsi, però, emblema della fine di una funzione sociale. Come ha notato Andrea Cortellessa, infatti, Novissimum Testamentum è costruito sul significato affatto sovrapersonale della fine di un’esperienza personale: cioè la propria morte, messa in scena nel testo, conta come il congedo da un’epoca, come la fine, vale a dire, di uno come Sanguineti: “Fine cioè di un tempo in cui, a torto o a ragione, si poteva pensare che valesse la pena, fosse addirittura vitale, morire per Sanguineti (come suonava un famigerato slogan editoriale degli anni Sessanta, ‘in ogni città d’Italia c’è un giovane disposto a morire per Sanguineti’…). Ossia, si precisa ancora una volta e per l’ultima, non per la persona fisica e nemmeno l’opera poetica del singolo versificatore Edoardo Sanguineti, bensì per ciò che essa rappresenta, o si credeva potesse rappresentare”. E tuttavia questo assurdo testamento non è soltanto, diciamolo pure senza mezzi termini, una delle più belle poesie civili del Novecento, ma è anche una delle più belle poesie d’amore del secolo scorso: i due termini, infatti, in Sanguineti sono sempre sviluppati parallelamente, il sabotaggio dello status quo avviene anche attraverso la critica e il ripensamento dello stare insieme e, soprattutto, della vita di coppia, nella convinzione che al mondo non c’è che politica, “ma la politica non è tutto” – “parliamo, per piacere, dei piaceri della vita, per una volta” si propone l’incipit di un testo di Postkarten, e la chiusura è emblematica: “(e ho concluso che il paradiso è chiavare nel sole, forse, pieni di Saint-Emilion)”.

Già dalla sua prima opera, non a caso, Laborintus, la rappresentazione dell’esaurimento della civiltà occidentale – messo in scena attraverso lo scardinamento di ogni regola linguistica e di ogni misura poetica – è accompagnato da un discorso sull’amore come forza di rigenerazione: la prima poesia di Sanguineti, dunque, non è solo e semplicemente una rappresentazione mimetica del caos, ma è soprattutto un tentativo di superare quel caos attraverso tutti i mezzi e gli strumenti che la riflessione sull’avanguardia gli mette a disposizione. E infatti i suoi primi tre libri di poesia raccolti nel volume Triperuno (che comprende, oltre a Laborintus, Erotopaegnia e Purgatorio de l’Inferno) mettono in scena esattamente un movimento dalla pulsione anarchica all’azione rivoluzionaria sulla realtà – e di conseguenza un modo diverso di parlare di quella realtà perché i materiali culturali, le parole, l’immaginario non sono mai neutri, ma militano sempre da una parte.

D’altronde, la stretta connessione fra la cultura e l’ideologia si rivelò ben presto nel giovane Sanguineti: a soli sette anni, poco prima dello scoppio della seconda guerra, lo racconta l’autore in un’intervista ad Antonio Gnoli, era solito uscire la sera in corso Oporto a Torino per giocare con altri ragazzi; una di quelle sere fece la conoscenza, mentre giocava a pallone, di Fedele, operaio di quindici anni che agli occhi di Sanguineti appariva come una creatura da un altro mondo: la sua sessualità già matura, i suoi discorsi politicamente impegnati, il suo rifiuto della religione furono i primi segnali che avvertirono Sanguineti bambino dell’esistenza delle classi sociali: “e comincia il mio primo riesame della situazione” confessa a Gnoli, “perché ciò che fino a quel momento avevo considerato genericamente umano, non lo era più”. Sanguineti, cioè, a partire da alcune differenze culturali, inizia a rendersi conto di come funzionano i condizionamenti sociali ed economici, inizia a comprendere cos’è l’ideologia e come orienta l’azione individuale e collettiva. E la sua attività poetica, narrativa, intellettuale, professorale, teatrale, critica, traduttiva girerà sempre attorno a quel nucleo primario: al tentativo, cioè, di sabotare e ripensare le forme di comunicazione e rappresentazione nella speranza di modificare quegli immaginari socio-simbolici che definiscono l’agire umano. Si tratta, come recita il titolo di un saggio di Sanguineti dedicato a John Cage, di praticare l’impossibile: “il problema – si legge in quelle pagine – è quello di riversare sopra il vissuto quotidiano, nell’azione sociale di ognuno, quanto l’arte addita in forma simbolica ma reale, fornendo modelli sperimentabili di nuove relazioni con gli uomini e con le cose. Non sarebbe né importante né appassionante sforzarsi di modificare l’arte, di innovare il linguaggio, se non ci fosse, più che la speranza, la certezza che, modificando l’arte, si modifica la mente, e si può così avviare una vera e progressiva rivoluzione dei comportamenti sociali, onde pervenire a mutare il mondo, a cambiare la vita”.

Si spiega così la costante sperimentazione sulle forme che Sanguineti porta avanti per tutta la sua carriera: si tratta di un’attività artistica a tutto tondo che si concepisce, come si legge in una lettera degli anni Cinquanta a Luciano Anceschi, perpetuamente sperimentale e perpetuamente uscente dallo sperimentalismo, vale a dire sempre pronta a mettersi in discussione, a immaginare nuovi modi e modelli di rappresentazione, a creare nuovi linguaggi che si traducano in nuovi modi di stare al mondo: e così il Purgatorio de l’Inferno può essere considerato una nuova dottrina d’amore ideologicamente orientata, e luogo di elaborazione di una paideia rivoluzionaria (con i figli che si fanno attivi portatori dell’utopia); Reisebilder (1972) e Postkarten (1978) si risolvono, invece, in una critica dell’esperienza borghese vista dalla prospettiva di un “marito fedele da anni venti di una degnissima metà” che si identifica come un “grafomane bellettrista e un docente stipendiato”, che “ha rispettato senza sforzi notabili quel pacchetto di impegni che spontaneamente, e laicamente, già contrasse dinnanzi all’autorità severa dello Stato” e “può raccogliersi ogni sera meditabondo, come molti mortali di questa cara patria, puntualmente rispondendo alle fascinose fanfare del Carosello, dinanzi al piccolo schermo, e orientare di poi, non senza un breve moto della mano, ora sull’uno e ora sull’altro canale, i propri occhi pazienti, sentendosi intanto circondato, fisicamente e moralmente, da una soffice coltrice di sentimenti ben temperati e di riposato intenerimento” (questa l’ironica autorappresentazione che apre un articolo polemico sul referendum abrogativo sul divorzio). Si tratta della poetica del “piccolo fatto vero”, messa a punto in Postkarten 49, in cui si recupera una dimensione più immediatamente comunicativa e la quotidianità più trita viene sottoposta a un discorso straniante e autocontestativo, talvolta parodico, di deformazione grottesca e di umorismo arguto, pur senza dimenticare l’urgenza del discorso politico (il marxismo è ancora un’antropologia “che spiega tutta la vita”, la parola più bella è ancora il comunismo e Gramsci torna continuamente come nome da leggere e rileggere, “per favore”) e il sempre presente discorso amoroso (con una inedita carica erotica), sia nella messa in scena della “degradazione della quotidianità privata” dei due coniugi “chiusi nel deforme dell’esperienza borghese” (così si legge in Reisebilder 31), sia nella forme del trasporto e dell’afflato, e spesso – di nuovo – in congiunzione con l’aspetto politico: “quando mi ritorni ragazza proletaria, sei più tu – e più mia”.

A questa stagione, che lo stesso autore definisce elegiaca, ne succede, nella costante opera di continua revisione e sperimentazione, un’altra che vira più marcatamente verso la forma comica – di una comicità che è l’unica forma del tragico possibile, secondo Sanguineti, nell’età contemporanea. Con libri come Bisbidis (1987), Senzatitolo (1992), Corollario (1997) e Cose (1999) il sentimento dello “sfascio” si fa sempre più presente e pressante e assume forme di disperazione e angoscia che si accompagnano ai temi dell’invecchiamento e della malattia. Eppure la carica ludica si fa sempre più forte e palese: una maschera giocosa, dunque, che rivela un impegno politico meno evidente, più sottotraccia, ma mai spentosi.

Tutto rientra, dunque, ancora una volta, nell’azione di sabotaggio non nichilista, ma operativamente orientata. Nel cercare di rispondere alla domanda “Chi era Edoardo Sanguineti?”, non a caso Fausto Curi scrive “innanzitutto un oppositore, un antagonista. Un antagonista radicale e tenace della società e della cultura borghese. Era un materialista storico rigoroso, un comunista coerente e fedele, un comunista militante, anche se singolare, giacché non ha mai avuto la tessera di un partito” (e anche quando fu eletto, nel ’79, al Parlamento vi entrò come indipendente nelle file del PCI). Uomo, dunque, rigorosamente di parte e fedele a una decisa idea di fondo: nel 1996, quando scriveva la lettera in versi al compagno proletario, Sanguineti firmava anche Praticare l’impossibile la cui conclusione è forse la sua migliore auto-descrizione: “Affermare la praticabilità artistica, sociale e etica dell’anarchia significa, dunque, fornire saggi e sensate esperienze della ‘praticabilità dell’impossibile’. È come dire […] che ‘il nostro vero lavoro, oggi, se amiamo l’umanità e il mondo in cui viviamo, è la rivoluzione’”.

 

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