“La signora Dalloway”, nata dalla penna di Virginia Woolf, secondo lo scrittore Francesco Pacifico è colei che meglio di tutti può insegnare che cos’è l’amore e soprattutto perché, nel nostro quotidiano, per gli innamoramenti che durano un momento o tutta la vita, è importante avere un’educazione sentimentale – Su ilLibraio.it un estratto dal memoir “Io e Clarissa Dalloway”

In Io e Clarissa Dalloway – Nuova educazione sentimentale per ragazzi, nuovo titolo della serie Passaparola della casa editrice Marsilio (che ospita brevi memoir di scrittrici e scrittori italiani che si confrontano con un libro speciale), Francesco Pacifico racconta la sua educazione sentimentale e perché – nonostante quello che si possa pensare – Virginia Woolf è (anche) “una scrittrice da uomini”, come si legge nella presentazione del volume.

Se per qualcuno la Signora Dalloway è l’emblema della donna frivola la cui unica preoccupazione è comprare dei fiori, per Pacifico (scrittore romano classe ’77 che ha pubblicato, tra gli altri, Il caso Vittorio, Storia della mia purezza e Class) la protagonista del suo nuovo libro, Clarissa Dalloway, è colei che meglio di tutti può insegnare che cos’è l’amore e soprattutto perché, nel nostro quotidiano, per gli innamoramenti che durano un momento o tutta la vita, è importante avere un’educazione sentimentale.

L’autore scrive: “Dopo Clarissa non ho più divorato romanzi. Dopo La signora Dalloway (LSD) sono diventato un lettore eternamente sotto psichedelici, che si ferma per dei minuti a guardare una frase, un periodo, un paragrafo, come chi è sotto psichedelici può contemplare un fiore, una parete, una linea di basso in una canzone”.

Io e Clarissa Dalloway Francesco Pacifico

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Clarissa Dalloway mi ha conquistato da grande, come i secondi matrimoni, quelli felici. La conoscevo già da tempo ma non mi era mai piaciuta. I miei romanzi preferiti erano tutti suoi contemporanei, erano scritti da uomini e avevano fissato la forma della mia vita con i loro personaggi infelici: Alla ricerca del tempo perduto, La coscienza di Zeno, Il grande Gatsby. Erano romanzi modernisti, come La signora Dalloway, che infatti avevo letto nello stesso periodo, a vent’anni. La mia mente era dominata dai problemi di identità degli uomini della crisi post-Belle Époque: Ulisse, Uno, nessuno e centomila, L’uomo senza qualità, La montagna incantata. Immerso in quella crisi di virilità, che era anche la crisi dell’Ottocento e del suo progetto di società, non sapevo come prendere La signora Dalloway: Woolf cercava una strada sua, un po’ ermetica, tra i tanti flussi psichici di quella fioritura che aveva preso il romanzo ottocentesco e l’aveva gonfiato, ridotto, squadrato, filtrato, nebulizzato, mesmerizzato, psicanalizzato, ridicolizzato, stilizzato.

Rispetto agli altri, Virginia Woolf offriva qualcosa di tropicale e impenetrabile. Io tenevo il passo dei ragazzi interrotti Zeno e Marcel: cosa c’entrava Clarissa, a che serviva quella sua giornata di commissioni e ricordi? Il suo senso della vita e della morte e alcuni altri giochetti di cui parlerò qui, a vent’anni non li vedevo, vedevo solo i fiori che doveva comprare, la festa da coordinare, e non mi interessava, non aveva il fulgore tombale dei «Morti»  di Joyce, quell’altra festa tanto più devastante. Il pastiche di Ulisse, il mito americano cromato di Fitzgerald, l’ossessione snob di Proust erano assalti marziali alla forma romanzo; quelli si che li capivo, mentre i giudizi sul mondo di Clarissa Dalloway no.

Credo che mi respingesse un aspetto, ma e un’idea che mi sono fatto ora. Pure nella Signora Dalloway c’era un maschio in crisi da romanzo modernista: Peter Walsh. Solo che qui non diventava un antieroe, non veniva preso sul serio – o preso in giro sul serio – come i suoi compagni di destino storico (mi viene in mente l’ironia solenne di Musil). Peter Walsh era finito nel libro sbagliato: lo sguardo di Clarissa gli dava un ruolo fastidioso. Non era un antieroe come Bloom, l’ometto grandioso distrutto dalle voglie centrifughe di sua moglie. Non era ovviamente un eroe. Peter non poteva essere un eroe ne un antieroe; non sembrava il soggetto di una seriosa crisi dell’uomo occidentale. Perché al narratore non importava dargli quel ruolo altisonante. Uno sguardo troppo umano e intelligente si posava su di lui, lo sguardo di Clarissa, impedendogli di diventare un antieroe. E io quindi non lo capivo, non sapevo che farne.

[Clarissa guardava] i fiori, gli alberi […] le cornacchie che si alzavano in volo, planavano; lei che guardava, in piedi, finche Peter Walsh disse: «In meditazione tra gli ortaggi?»  – quello, disse?, o «Preferisco gli uomini ai cavoli»? Doveva averlo detto a colazione una mattina quando lei era uscita sulla terrazza – Peter Walsh.

Peter, uno che e partito per l’India e ha vissuto una vita piena, manco a dire uno Zeno, e sempre raccontato cosi: e amato e allo stesso tempo e quello che e, uno che pur di venire a scocciarti fa sparate filosofiche o ironiche, chi lo capisce. Ai maschi pesa immedesimarsi in personaggi che non siano ne eroi ne antieroi: vogliono (vogliamo) essere indispensabili, inevitabili, innegabili, una sentenza, buona o cattiva non importa.

Se non possono stravincere, ai maschi piace almeno darsi un’aria maledetta. Franco126 in Parole crociate canta le birre e le occasioni sprecate con la donna, si lascia compatire da chi lo ascolta: «Pure stasera m’hai lasciato a zonzo / Solo per qualche frase fuori posto / E ho l’impressione di girare in tondo / Solo con le bugie che mi racconto […].»

Se non ti ho reso felice potrò almeno essere un magnifico fallimento? L’inizio del secolo, con l’esplosione delle serie tv, ha visto ridefinita e rilanciata una certa figura di antieroe: Don Draper, il pubblicitario incapace di amare (Mad Men), e Walter White, il malavitoso incapace di amare (Breaking Bad), hanno entrambi scatenato l’identificazione dei maschi, perché se il nostro ruolo di supereroi, capifamiglia, tuttofare, breadwinner non funziona più come avevano sognato prima la regina Vittoria e poi i pubblicitari di meta Novecento, vogliamo almeno essere i cattivi. Ci ho fatto caso ora: Mad Men, Breaking Bad. Mad, bad, bambini che fanno le smorfie, guardami, mamma, sono cattivo?, ti faccio un po’paura? Ci sbattiamo per sembrare più malvagi e pericolosi mentre per le donne già lo siamo abbondantemente: un equivoco osceno.

Più avanti nella canzone Franco confessa: “E parlo troppo e non ti so ascoltare”, ma questo tema, cui Virginia Woolf, scrivendo di Peter Walsh, dedicherà un’analisi meticolosa, qui finisce accantonato da un’idea di reciprocità del male – “Chissà perché ci stiamo dando solamente il peggio / Forse non c’è più tempo”.

È un bene che non ci sia più tempo, tanto una volta conquistata la donna non sappiamo cosa farci. A un certo punto del liceo dovetti fidanzarmi perché una ragazza con cui mi baciavo aveva scoperto che ne baciavo anche un’altra. Il mio migliore amico mi disse che l’unico modo per non perderla era mettermi con lei. Siccome io della vita sapevo meno di Julien Sorel e neanche leggevo le memorie di Napoleone per orientarmi, gli chiesi in cosa consistesse un fidanzamento. Lui disse che era come fra me e lui, più il sesso. Non ne sapevamo niente.

(continua in libreria…)

Abbiamo parlato di...