Nel saggio “Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività” Isabella Pinto unisce critica letteraria a riflessioni filosofiche. Ed esplora lo storytelling in quanto pratica di soggettivazione. Su ilLibraio.it il capitolo dedicato all’amicizia femminile e a “L’amica geniale”

Al confine tra critica letteraria e analisi filosofica, nel saggio Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività (Mimesis, nelle librerie online dal 24 aprile e in quelle fisiche dal 28 maggio), Isabella Pinto esplora la scrittura della misteriosa e amatissima autrice e il rapporto tra soggettività e narrazione. Elena Ferrante depersonalizza il soggetto narrante per lasciare spazio alle affermazioni molteplici di altre voci, altre soggettività, abitate dal soggetto-lettore che, grazie alla finzione dell’autore, pone in essere il divenire del mondo.

elena ferrante

Mitopoiesi, rilegge il rapporto mitologico madre-figlia; Diaspora, racconta il divenire delle personalità in fuga; Performatività, dà voce all’istanza narrativa polifonica e relazionale: i tre capitoli ci accompagnano in un “multiverso temporale transfemminista”, dove solo le soggettività impreviste e postumane sono in grado di trasformare il potere dello storytelling in potenza poetica. Il “Global Novel” si mostra così nella sua nuova istanza emblematica: la narratrice-traduttrice che usa lo storytelling come pratica di soggettivazione

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L’autrice del saggio è Ph.D. in European Label in Studi Comparati, titolo conseguito all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Attivista nei movimenti studenteschi, sociali e per i beni comuni, ha lavorato nel mondo dell’editoria romana. Attualmente è ricercatrice indipendente, redattrice di IAPh-Italia (Associazione Internazionale delle Filosofe) e dramaturga. Collabora con diverse riviste culturali e scientifiche. Dal 2015 fa parte del gruppo di ricerca Atelier Ecopol (Eco/nomia/logia Politica Transfemminista Queer di IAPh-Italia). Dal 2017 è coordinatrice del Master in Studi e Politiche di Genere dell’Università degli Studi Roma Tre. Nel 2018 ha co-curato i volumi Women Out of Joint. Dopo Hegel, su cosa sputiamo? (La Galleria Nazionale) e Bodymetrics. La misura dei corpi. Quaderno Tre: crisi, conflitto, alternativa (IAPh-Italia).

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un capitolo del libro*:

L’amicizia femminile come processo di soggettivazione.
L’amica geniale

L’amica geniale, pubblicato nel 2011, è il primo dei quattro romanzi che compongono l’omonima tetralogia. La narrazione procede in prima persona ed è affidata alla voce di Elena Greco (Lenù), figura letteraria che esiste grazie all’assenza dell’altra protagonista, Raffaella Cerullo (Lila). A livello formale, dopo l’elenco dei personaggi principali della vicenda posti a mo’ di testo drammaturgico, le prime pagine del libro sono costituite dal Prologo. Cancellare le tracce, che collocano la narrazione nel presente della narratrice Elena Greco (siamo nel 2010), donna alla soglia della terza età che abita a Torino, a cui viene comunicato telefonicamente che Raffaella Cerullo, sua amica d’infanzia, è scomparsa senza lasciare alcuna traccia. La storia si apre e si giustifica dunque come reazione rabbiosa della narratrice alla sparizione volontaria dell’amica di lungo corso.

Una prima indicazione che ci autorizza a parlare di una trasformazione o molteplicità della poetica di Ferrante, è che “L’amica geniale parte non dalla frantumaglia ma da blocchi narrativi più nitidi grazie a La figlia oscura”. Una seconda indicazione riguarda la volontà di raccontare un doppio movimento, la perdita delle bambole e la perdita di una bambina in quanto sparizioni, a cui poi si è aggiunta la volontà di “raccontare l’intenzione di una persona anziana di sparire – che non significa morire –, senza lasciare traccia della propria esistenza”. Una terza indicazione risiede in una “sofferta amicizia femminile”, menzionata per la prima volta in un’intervista del 2009 in termini autobiografici. Infine, la quarta indicazione mette in evidenza l’utilizzo di racconti non-finzionali inediti di Ferrante, ovvero storie di donne, più o meno giovani, ritratte nella relazione con le molteplici oppressioni agite dal dominio patriarcale. Se questi sono i primi spunti per l’analisi delle 1630 pagine che compongono la tetralogia, non è tuttavia secondario segnalare, inizialmente, anche il rifiuto di usare il dialetto napoletano poiché: “da bambina, da adolescente, il dialetto della mia città mi ha spaventata. Preferisco che echeggi per un attimo nella lingua italiana ma come se la minacciasse”.

Fin dal Prologo notiamo l’importanza narrativa di un rapporto di amicizia femminile. L’operazione di Ferrante sembra così rispondere creativamente alle sollecitazioni provenienti dal femminismo della differenza rispetto alla necessità di moltiplicare i luoghi simbolici di omosocialità femminile, per cui dopo la relazione madre-figlia la nostra autrice sperimenta questa parte dell’impensato della cultura umana nello spazio letterario, laddove il lavoro intrapreso, dalle femministe francesi prima e italiane poi, fu svolto per lo più con gli strumenti della psicoanalisi e dentro il campo disciplinare della filosofia. Ferrante sceglie così di abitare uno spazio poco frequentato dalle femministe, ma non dalle scrittrici, ovvero analizzare ciò che avviene tra donne con gli strumenti della narrazione, dove non si tratta di definire la specificità femminile. Piuttosto si tratta di raccontare quelle porzioni di realtà in cui la figura maschile non è posta al centro della vicenda – e per cui le figure femminili diventerebbero elementi che si misurano su di lui. La questione dell’impensato femminile torna altresì nel versante paradossale della complicità delle madri con l’ordine patriarcale, soprattutto quando per le figlie non costituiscono un parametro simbolico con il quale misurare affermativamente la propria soggettività non maschile.

In continuità con gli esiti della ricerca letteraria del “Ciclo delle madri cattive”, Ferrante muove dalla relazione negativa tra Elena e la madre, per motivare la scelta della narratrice di volgersi a Lila come misura per se stessa. Tuttavia, è chiaro fin da subito che la relazione che si instaura tra Elena e Lila non potrà essere una relazione di rispecchiamento ma di disparità, poiché “Lila era troppo per chiunque”. Una disparità che produce in Elena un’alternanza di ammirazione e invidia, meccanismo prima di tutto narrativo, che permette ai personaggi di Ferrante di porsi fuori dallo schema del doppio o dello specchio. Di conseguenza, l’identità è una questione di differenza e di metamorfosi, che può esprimersi nello spazio della relazione tra due bambine, parzialmente libero da regole predeterminate, poiché porzione di realtà impensata dalla cultura dominante: lo schema narrativo non è quello dell’identità intesa come identificazione o immedesimazione, ma della differenza intesa come relazione. Ne è un primo esempio il racconto della relazione delle due bambine nello spazio della scuola, in cui, nonostante il clima repressivo e antiformativo, è possibile sperimentare la propria potenza e “voglia di vincere”, come raccontano gli episodi delle gare scolastiche a cui venivano sottoposte le alunne contro gli alunni. La potenza di Lila è più sgargiante rispetto a quella di Lenù, impara a leggere e scrivere da autodidatta, sbaraglia chiunque nelle gare di bravura, mostrando con estrema naturalezza la sua intelligenza, cosa che ben presto genera l’odio di studenti e professori.

In questo primo romanzo, grande importanza viene assunta da alcuni personaggi e da alcuni oggetti, che spesso si rivelano magici. La prima parte Infanzia. Storia di don Achille, in cui si cementifica il rapporto di amicizia tra le due bambine, ruota attorno al personaggio di don Achille, borsanerista del rione nel periodo della Seconda Guerra Mondiale e strozzino nel periodo del Dopoguerra, rappresentando un limite invalicabile agli occhi di Lila e Elena. Attraverso l’episodio delle bambole si presenta la loro prima opportunità di oltrepassare tale limite, che se da un lato sancisce l’esistenza della loro amicizia, dall’altro rompe l’incantesimo tutto infantile di relazione con la bambola, permettendo l’accesso a un nuovo oggetto magico.

Con i soldi ottenuti come risarcimento da don Achille, Lila compra Piccole donne. Così, abbandonate le bambole, Lila spinge se stessa ed Elena verso il primo simbolo su cui modellare un’idea di ricchezza: divenire scrittrici, obiettivo a cui sarebbero giunte l’una con l’aiuto dell’altra. Il progetto di scrittura di Lenù e Lila viene suggellato dal patto di aspettare gli esami di ammissione alle scuole medie, a cui poteva partecipare solo Elena, ma anche se Lila “acconsentì, però non seppe resistere […] e scrisse un romanzo”. Questa situazione di disparità produce in Elena dolore, tuttavia nascose il suo rammarico, quando Lila le portò da leggere La fata blu, una decina di fogli in cui vi era un racconto “appassionante” con tante “parole difficili” agli occhi dell’amica. La fata blu si trasforma così in un oggetto dotato di agency, poiché è in grado di reificare la situazione di disparità. La prima parte del libro si chiude con l’assassinio di don Achille che rende evidenti anche le differenti qualità di narratrici delle due amiche.

Intitolata Adolescenza. Storia delle scarpe, la seconda parte del volume è la storia di Lila bambina che crea il modello di scarpa perfetto, altro oggetto magico, il quale, finendo nelle mani del padre e del fratello, si trasforma nel motivo per cui sarà lei stessa ad essere ridotta a scarpa, ovvero ricacciata nel suo ruolo di oggetto/merce, da scambiare, usare come pegno, da promettere, da appendere alla parete di un negozio. Tuttavia, se da un lato Lila sviluppa l’ammirazione per chi possiede una vita anche poco più agiata della sua, dall’altro cerca di trasformare questo desiderio in forza creatrice: progetta scarpe bellissime, così come immagina il salto di qualità economica nel passaggio da bottega di quartiere a calzaturificio.

Il racconto si sviluppa con un movimento di continua alternanza tra Lenù e Lila, che porta il lettore a un incessante paragone tra le due vicende: se entrambe sono costrette a subire la “normale” violenza familiare, Lenù ha maggiori possibilità di liberarsene, ma non perché la sua famiglia si rivela essere meno violenta, bensì grazie alla “relazione di affidamento” che la maestra Oliviero instaura con lei. Al contrario, per Lila l’adolescenza coincide con una condizione di maggiore solitudine incontrata nel lavoro operaio a maggioranza maschile, da cui sviluppa il desiderio di uscirne quanto prima e con ogni mezzo necessario.

È importante segnalare che Adolescenza, storia delle scarpe si apre con la definizione (e prima attestazione narrativa) della “smarginatura”: “Il termine non è mio, lo ha sempre utilizzato lei forzando il significato comune della parola. Diceva che in quelle occasioni si dissolvevano all’improvviso i margini delle persone e delle cose”. La scena si svolge in cima a un palazzo del rione, durante una notte di capodanno, in cui con alcuni amici si erano radunati per il consueto lancio dei fuochi d’artificio. Elena, ricordando il racconto dell’amica di molti anni dopo:

all’improvviso – mi disse –, malgrado il freddo aveva cominciato a coprirsi di sudore. Le era sembrato che tutti gridassero troppo e che si muovessero troppo velocemente. Questa sensazione si era accompagnata a una nausea e lei aveva avuto l’impressione che qualcosa di assolutamente materiale, presente intorno a lei e intorno a tutti e a tutto da sempre, ma senza che si riuscisse a percepirlo, stesse spezzando i contorni di persone e cose rivelandosi […].

La voce narrante utilizza lo schema del futuro anteriore per analizzare criticamente il concetto di “smarginatura”: quando Lila le fece quel racconto ammise che, nonostante quella parola le fosse stata chiara solo nel 1980 (durante il terremoto di Napoli), aveva già avuto “la sensazione di trasferirsi per poche frazioni di secondo in una persona o una cosa o un numero o una sillaba, violandone i contorni”, come quando il padre l’aveva buttata dalla finestra anni prima per zittirla durante una lite, causandole la rottura di un braccio. Tuttavia la sensazione di quel capodanno l’aveva particolarmente sconvolta perché aveva avuto chiaramente la percezione di “entità sconosciute che spezzavano il profilo del mondo e ne mostravano la natura spaventosa”. Sul piano della forma abbiamo ritorni e riscritture di questo stesso episodio. Infatti, Il racconto della “smarginatura” e di quel preciso episodio torna dopo che Elena ha ricucito insieme, in una storia lineare, gli eventi accaduti tra la fine della quinta elementare e la festa di capodanno a casa di Stefano Carracci. In questa occasione Elena parla della condizione di Lila nei seguenti termini:

Lila non so, era muta, presa dallo spettacolo come da un enigma. […] Di quella notte, l’ho detto, mi sfuggirono molte cose […] Di cosa le fosse accaduto, l’ho detto, non mi accorsi, il movimento era difficile da percepire.

In questo quadro vediamo come Ferrante costruisca la “smarginatura” attorno ai personaggi, ravvisando un ritorno di ciò che Pier Vittorio Tondelli individua come “scrittura emotiva”, ma innestandola con il racconto della violenza maschile sulle donne. La scrittura emotiva è l’elemento accanto al quale la serialità serrata di Ferrante fa pensare a ciò che lo scrittore emiliano intendeva per “letteratura emotiva”, laddove:

l’unico spazio che ha il testo per durare è quello emozionale; se dopo due pagine il lettore non avverte il crescendo e si chiede: “Che cazzo sto a leggere?” quello che capisce niente mica è lui, cari miei, è lo scrittore. Dopo due righe il lettore deve essere schiavizzato, incapace di liberarsi dalla pagina; deve trovarsi coinvolto fino al parossismo, deve sudare e prendere cazzotti, e ridere, e guaire, e provare estremo godimento.

Ferrante sembra così riprendere la poetica tondelliana, che univa scrittura emotiva ed esperienza in prima persona, cogliendo nelle emozioni non più una componente del sentimentalismo dei romanzi d’appendice, bensì qualcosa che intreccia fortemente letteratura e politica, perché aggroviglia il piano sociale con quello personale, portandoci a ridosso di una possibile eterogenesi del postmoderno letterario italiano.

Monica Jansen, nella sua dettagliata ricostruzione del dibattito sul postmoderno in Italia, parla infatti di Tondelli quale esponente di un postmoderno “diretto”, a fronte di un postmoderno “culturale”, proprio di Umberto Eco o di Italo Calvino:

Se il “postmoderno culturale” esprime uno degli effetti della condizione di Posthistoire per cui il nuovo diventa routine, e mentre in esso la crisi della logica moderna si verifica soprattutto come crisi formale dello stile “individuale”, il postmoderno “diretto” sembra piuttosto il risultato della liberazione del diverso attraverso i canali dei mass media che aprono una relazione diretta col vissuto.

Oggi, soprattutto in area anglosassone, fioriscono studi che si concentrano sull’aspetto delle emozioni in relazione al concetto di affetto, di ispirazione deleuziana-spinozista, e convenzionalmente identificato con il cosiddetto Affective Turn. Pieter Vermeulen sintetizza efficacemente i termini del discorso:

Mentre gli affetti sono intensità non cognitive e non rappresentative che si verificano al di fuori della coscienza, le emozioni emergono quando tali intensità sono narrativizzate, nominate e rappresentate come parte dell’esperienza individuale. Gli affetti sono forze non soggettive, asignificanti che sono “delocalizzate narrativamente” e “disconnesse dalle sequenze di significazione” […]; le emozioni, da parte loro, sono l’assorbimento “convenzionale, consensuale” degli affetti “in funzioni e significati” […]. Gli affetti, in altre parole, non appartengono mai a un soggetto individuale, ma sono rigorosamente presuntivi […]. L’affetto dissolve l’interiorità autonoma dell’individuo aprendolo a nuove connessioni e ricombinazioni.

In linea con l’Affective Turn e con le considerazioni di Deleuze e Guattari sulle figure estetiche, si collega anche il seguente passaggio tondelliano, espressione di una poetica che ritroviamo nella costruzione dei personaggi di Ferrante:

Tutto l’interesse è portato sui personaggi: i personaggi sono intensità emotive, sono cortocircuiti di sound; i personaggi vivono nel racconto, lo parlano: il racconto emotivo non esiste senza i personaggi, perché i personaggi sono la produzione del discorso emotivo; i personaggi sono derive discorsive nella corrente fluxus del linguaggio.

Anche in Ferrante vi è una predominanza della forma breve del racconto, con l’andamento di una narrazione che procede per blocchi narrativi, per cui “i personaggi sono rapsodie d’un parlato che si muove, i personaggi sono azioni ritmiche, in sostanza i personaggi sono i sax mobili e vagabondi della scrittura emotiva”. Poetica in cui risuona quindi una diversa concezione della durata temporale rispetto a quella lineare.

D’altronde anche la stessa Ferrante ha parlato esplicitamente di “scrittura delle emozioni” in riferimento all’importanza narrativa del dolore:

… dobbiamo parlare di come il dolore modifica l’immagine del tempo. L’insorgere della sofferenza annulla il tempo lineare, lo spezza, ne fa vorticosi scarabocchi. […] L’andamento che ordina eventi è solo il momento dell’accumulo di energia prima di una nuova tromba d’aria. Un’immagine, questa, che mi torna utile: permette di pensare a un tempo del dolore che ci investe avanzando a vortice, ma anche a una scrittura delle emozioni che sia sonorità del respiro, un vento dei polmoni che, producendo musica, fa roteare relitti d’epoche diverse e infine mulinando passa.

La scrittura emotiva di Ferrante, ovvero la scrittura della “smarginatura”, è uno “scardinarsi delle forme” e del tempo, elemento che fa la sua prima apparizione dal punto di vista di Elena, durante la discesa nello scantinato alla ricerca delle bambole. Un cambio di stato a cui tuttavia la narratrice non è capace di dare un nome preciso. A dare il nome di “smarginatura” è infatti Lila, la quale parla di tali episodi all’amica a seguito di una profonda riflessione maturata nell’arco di più di vent’anni. È quindi una Lila ormai adulta che racconta all’amica Elena ciò che successe la notte di capodanno del 1959, in cui i festeggiamenti con i fuochi d’artificio si trasformano in un regolamento di conti tra gruppi di maschi.

De Rogatis, sulla scorta di Milkova, usa la categoria di “labirinto” per spazializzare una sensazione che è al contempo affettiva, immaginaria e reale. La spazializzazione degli episodi di “smarginatura” funzionano anche come meccanismo di accumulazione per delineare la fisionomia di Napoli, “città ermafrodita” in quanto luogo della violenza maschile e del dolore femminile, “Napoli come medium di una potenza magica che si insinua nelle maglie rigorose dell’effetto di realtà”.

Tuttavia, tramite Elena e Lila, Ferrante spiazza la figura estetica occidentale della donna meridionale subalterna – oggi riattualizzata grazie all’emersione di griglie interpretative che superano la dicotomia classica di Nord/Sud del mondo, quali “Sud Globale” e “Sud Mediterraneo”, provenienti dai Subaltern Studies, dagli studi postcoloniali e dal pensiero decoloniale – : è la loro relazionalità, complice e conflittuale, collocata nel contesto “glocale” del meridione italiano ad essere il fulcro narrativo, e non solo la loro comune condizione di oppressione e subalternità.

Nella seconda parte del primo volume il personaggio di Lila cresce, provocando l’invidia di Elena. Qui l’invidia è da intendere come un affetto che segnala il desiderio di un qualcosa che Elena vorrebbe per se stessa. D’altro canto, l’effetto della scrittura di Lila su Elena si rivela essere trasformativa e appropriativa a un tempo, come mostra il modo in cui la narratrice racconta l’episodio dell’esplosione della pentola di rame, narrato in una lettera inviatale dall’amica. Attraverso questo racconto del racconto, emerge nuovamente l’agency della materia, e che nelle parole di Elena testimonia altresì le trasformazioni di stato dell’amica. Come già accaduto in I giorni dell’abbandono, L’amica geniale è teatro di eventi inspiegabili a livello logico, in cui viene raccontata l’intra-attività tra soggetti umani e oggetti non-umani, dove l’agency non spetta di diritto esclusivamente al soggetto umano, aprendo così la narrazione a entità postumane.

A livello temporale Ferrante crea una narrazione in cui il tempo della storia è per lo più lineare, mentre il tempo del racconto è continuamente frammentato, tramite analessi, prolessi, e frequenti riscritture di episodi già narrati. In questo modo, il carattere relazionale della narrazione viene doppiamente sottolineato, sia come azione che intende invertire il processo di cancellazione di Lila, sia come relazione tra il proprio tempo soggettivo e ciò che di esterno al soggetto che narra ne ha maggiormente catalizzato l’attenzione. Per analizzare questa continua riscrittura e rimodulazione della narrazione a livello di costruzione temporale, che vista da vicino assomiglia a un vortice in cui si può sempre riformulare l’impressione avuta, è utile chiamare in causa il concetto di diffrazione temporale.

La diffrazione, secondo Karen Barad, è insieme il divenire del mondo e il differenziarsi del mondo, qualcosa che investendo il tempo lo spezza in diverse temporalità, secondo la meccanica del “realismo agenziale”. Riprendendo gli studi del fisico quantistico Niels Bohr, Barad definisce “realismo agenziale” il processo secondo cui la realtà si materializza attraverso le intra-azioni di fattori umani e non-umani, mettendo in luce le possibilità creative e responsabili proprie della materia che emergono grazie all’intra-azione dentro e con il mondo. Secondo questo paradigma onto-epistemologico, la realtà è ciò in cui e con cui esistiamo e interagiamo, poiché essa è sedimentata dal mondo e viene resa intellegibile attraverso certe pratiche e non altre. Il paradigma del “realismo agenziale” mostra come i fenomeni siano inseparabili dai dispositivi di produzione corporea e dalle griglie culturali attraverso cui li si osserva. Di conseguenza, la materializzazione del mondo e della realtà si intende in termini di dinamica della intra-attività: l’ontologica inseparabilità – l’entanglement – di parole e cose.

Il “realismo della materia” rappresenta la forma contemporanea di neo-materialismo radicale che emerge dalla corporalità e che diventerà anche nota come politica vitalista […], femminismo trans-corporale […] o femminismo postumano […].

Secondo questo paradigma, tutti i fenomeni coesistono in una temporalità non edipica: “passato, presente e futuro sono sempre in rifacimento. Il che dice che i fenomeni sono diffratti e distribuiti temporalmente e spazialmente attraverso tempi e spazi multipli”. La “smarginatura”, in questo senso, diffrange la temporalità del racconto, agendo quindi come messa in discussione tanto della linearità narrativa quanto dell’antilinearità frammentata propria delle poetiche moderne, per introdurre un’ulteriore visione della temporalità. In questo senso le riscritture della smarginatura presenti nel primo volume di L’amica geniale sono la materializzazione della diffrattività temporale, e non il caos indistinto di una temporalità frammentata.

(continua in libreria…)

* le note, presenti nel testo originale, sono state omesse per scopi redazionali.

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